lunedì 19 aprile 2010

I ROM NON SONO RUMENI

In Italia

Gli zingari in Italia, come nel resto del mondo, rappresentano una comunità eterogenea, dalle mille sfumature e dalle mille espressioni. Mille sono anche gli anni della storia degli zingari divisi essenzialmente in tre gruppi principali: Rom, Sinti e Kalé (gitani della penisola iberica). A questi gruppi principali si ricollegano tanti gruppi e sottogruppi, affini e diversificati, ognuno con proprie peculiarità. Essi hanno un'origine comune, L'india del nord e una lingua comune, il romanès o romani ©hib diviso in svariati dialetti. L'opinione pubblica, che dei Rom e Sinti conosce poco o niente, tende a massificare e a confondere i diversi gruppi zingari, soprattutto tende a condannare e ad emarginare senza capire. La popolazione zingara in Italia rappresenta lo 0,16% circa dell'intera popolazione nazionale essendo stimati in un numero di persone compreso fra le 80.000 e le 110.000 unita. Sono presenti solo Sinti e Rom con i loro sottogruppi. I Sinti sono soprattutto insediati nel nord dell'Italia e i Rom nell'Italia centro-meridionale. Essi rappresentano gli zingari di antico insediamento a cui hanno aggiunti vari gruppi zingari di recente e di recentissima immigrazione. Circa 1'80% degli zingari che vivono nel nostro Paese hanno la cittadinanza italiana, il 20% circa e rappresentato da zingari extracomunitari, soprattutto provenienti dai territori della ex-Jugoslavia. Circa il 75% e di religione cattolica, il 20% di religione musulmana e il 5% raggruppa: ortodossi, testimoni di Geova e pentecostali.

L'arrivo in Italia

L'origine indiana degli zingari si è scoperta nel XVIII secolo attraverso lo studio della lingua zingara. Con lo studio filologico si è potuto ricostruire ipoteticamente l'itinerario seguito dagli zingari nel loro lungo cammino in quanto essi prendevano a prestito parole dai popoli con cui venivano a contatto. Dall'India del nord sono arrivati in Europa attraverso la Persia, l'Armenia e l'Impero Bizantino. Dai Balcani si sono diramati in tutta Europa, arrivando anche in Russia e, con le deportazioni, nelle Americhe e in Australia. Sono molti gli studiosi che credono che i Rom abruzzesi, fra i primi gruppi zingari arrivati in Italia, siano arrivati attraverso l'Adriatico provenienti dalle coste albanesi e greche, probabilmente per sfuggire alla repressione dei turchi ottomani. A sostegno di tale tesi si e fatto riferimento all'assenza nella parlata dei Rom abruzzesi di termini tedeschi e slavi. Ma si può obiettare: i turchi ottomani conquistarono tutta la Grecia e l'attuale Albania fra il 1451 e il 1520 (L. Piasere), mentre i Rom in Italia arrivarono molto tempo prima (il primo documento che attesta l'arrivo degli zingari e del 1422 ma ci sono molti indizi che inducono a credere che i Rom arrivarono ancora prima); i Rom abruzzesi hanno nella loro parlata sia termini tedeschi come tiÒ, glàse, brèg (ted. tiÒch = tavolo, glas = bicchiere, berg = montagna), sia termini serbo croati come plaxtà = lenzuola (s.c. phahta), niÒte = nulla (s. c. nista), a Òtar = catturare, afferrare (s.c. staviti), nikt (nikkete) = nessuno (s.c. nikto), a pukav. = fare la spia, denunciare (s.c. bukati), po (pro) = per (s.c. po); inoltre, perché i Rom con le loro carovane avrebbero dovuto viaggiare per via mare, via a loro scomoda, inusuale e all'epoca minacciata dai turchi, se per secoli avevano dimostrato di spostarsi con sicurezza e rapidità per via terra? Tutto ciò induce a credere che il grosso dei Rom abruzzesi sia arrivato in Italia dal nord per via terra, proveniente, dall'Albania o dalla Grecia, attraversando la ex-Jugoslavia e territori di lingua tedesca. Non è da escludere che effettivamente piccoli nuclei siano arrivati in Italia attraverso l'Adriatico assieme ad altre minoranze come Serbo -Croati e Albanesi. Tutto è comunque ancora da provare. Da questa piccola introduzione si può ben comprendere come sia difficile ricostruire la storia dei Rom sia perché i documenti a disposizione sono pochi ed incompleti sia perché i Rom non hanno lasciato nessuna testimonianza scritta. La storia dei Rom é una storia che non nasce dall'interno della sua comunità proprio perché essi rappresentano un popolo senza scrittura che affida alla "memoria" e alla tradizione orale il compito di trasmettere la propria storia e la propria cultura. La storia dei Rom è fatta dai Caggé (non zingari) attraverso le osservazioni di quanti ai Rom si sono in qualche modo interessati per la curiosità e la meraviglia che suscitavano o attraverso le disposizioni delle autorità pubbliche. Così dalla lettura delle Cronache del XV secolo si possono ricostruire sommariamente gli itinerari seguiti dagli zingari in Europa. Il primo documento che segnala l'arrivo degli zingari in Italia è quello del 18 luglio 1422, un'anonima cronaca bolognese contenuta nella Rerum Italicarum Scriptores di Ludovico Antonio Muratori: "A di 18 luglio 1422 venne in Bologna un duca d'Egitto, il quale aveva nome Andrea, e venne con donne, putti e uomini del suo paese, e potevano essere ben cento persone...... " Dalle "grida" e dai bandi che dal 1500 si sono susseguiti fino al 1700 si possono dedurre le politiche attuate dalle autorità nei confronti degli zingari: politiche di espulsione, di reclusione, di repressione, di deportazione, ovvero politiche votate al più completo rifiuto. (Attualmente siamo nella fase della politica di assimilazione).

I Rom abruzzesi

I Rom abruzzesi, con cittadinanza italiana, rappresentano dunque uno dei primissimi gruppi zingari arrivati in Italia e grazie alla lunga permanenza sono relativamente più inseriti nel contesto sociale ed economico della società maggioritaria rispetto ad altri gruppi di recente immigrazione. In passato le attività principalmente esercitate erano quelle che lasciavano spazio all'essere e alla creatività e quelle che facilitavano i rapporti umani. Da qui l'attività di musicisti, di fabbri calderari, di commercianti di cavalli, di lavoratori di metalli. Il progresso tecnologico, il boom economico, lo sviluppo delle attività industriali hanno soppiantato le attività tradizionali e la maggioranza dei Rom ha dovuto operare una riconversione economica, ma il modo di porsi di fronte alla vita e di interiorizzarla e soprattutto la struttura sociale dei Rom e rimasta nei secoli pressoché immutata. L'istituzione fondamentale su cui si regge la società romanes e la famiglia, intesa nel senso più ampio, come gruppo cioè che si riconosce nella discendenza da un antenato comune. Da sempre oggetto di violenza i Rom hanno rafforzato i rapporti endogamici e i vincoli di solidarietà familiare, mantenendo invece verso l'esterno un atteggiamento ostile. Vi è in questo un profondo senso di sfiducia e un'intima esigenza di difesa. Il sistema sociale e vissuto nelle profonde componenti umane, basato essenzialmente sul severo rispetto delle norme etico-morali che regolano e disciplinano la comunità romanes per garantire ai singoli individui la piena integrazione. Essi tutelano la dignità e l'onore del Rom. Non esistono classi o gerarchie sociali se si esclude quella semplicistica di ricchi e poveri, cosicché anche il più ricco e in relazione con il più povero e viceversa in base ad un principio di eguaglianza che riflette una ottica di vita di tipo orizzontale. In questo contesto il Rom abruzzese si sente parte di una totalità singolare che lo porta a differenziarsi sia dai caggé (non zingari) sia dagli altri gruppi zingari (Rom stranieri, Sinti, Kalé). ciò si traduce in un proprio stile di vita con modi proprio di esprimersi e di comportarsi. Alcune norme sono vincolanti, ad esempio: alle romniá abruzzesi non e assolutamente consentito dall'etica romanès di fumare, di indossare pantaloni, di truccarsi, di indossare costumi da bagno al mare, di giocare d'azzardo. Le donne che vogliono avere una buona reputazione ed intendono essere rispettate dai Rom si adeguano al rispetto di tali norme morali, che non le confonde con gli altri. Un Rom si sente perfettamente sicuro in seno alla sua comunità, costituita dall'insieme di tanti singoli gruppi parentelari dove non esistono né regine né tantomeno re come invece tende a far credere il sensazionalismo giornalistico che copre con la fantasia e l'immaginazione le proprie carenze informative. In mondo romano vien perciò presentato o in termini mitologici o in termini criminalizzanti, l'una e l'altra forma sono delle distorsioni che alterano il mondo zingaro producendo stereotipi negativi e pregiudizi di cui i Rom restano vittime. La sicurezza del Rom deriva dalla tradizione che lo pone sicuro di fronte al futuro e dalla coesione, che lo pone sicuro davanti all'imprevedibile. Tutto ciò si traduce in un forte equilibrio psicologico. Le relazioni ben strette fra educazione, coesione ed equilibrio psicologico sono minacciate con i contatti conflittuali esterni. Si pensi ad un bambino Rom che frequenta la scuola pubblica: entrare a contatto con una realtà che presenta dei modelli di vita funzionale alla società maggioritaria a cui e difficile per lui adattarsi, gli provoca inevitabilmente uno smarrimento in quanto è costretto ad operare una difficile scelta che nella maggior parte dei casi lo induce a ripercorrere la strada degli affetti familiari; da adulto mostrerà un atteggiamento ostile verso quella società non ancora preparata ad accoglierlo se non attraverso l'assimilazione. Lo stesso dicasi dei matrimoni misti in cui l'individuo esterno viene a rappresentare un elemento di disturbo se non riesce ad integrarsi. Il cardine della struttura sociale dei Rom e la famiglia patriarcale, dove il vecchio, considerato saggio, ne é rappresentante riconosciuto. Ci sono Rom che vengono esclusi per le loro pessime qualità morali, sono considerati "gavalé" e sono derisi e scherniti. I frequenti contatti all'interno del mondo romano hanno da sempre attivato una fitta rete di comunicazione interna che porta i Rom ad essere a1 corrente di ciò che accade a famiglie zingare anche molto distanti. I mass media rappresentano oggi, assieme alle organizzazioni tentacolari pseudo-zingare, la più grande minaccia all'esistenza dei Rom poiché infondono modelli di vita che allontanano i giovani dalla tradizione facendo allargare le maglie delle relazioni sociali e familiari, creando anche nuovi gusti e nuove esigenze che alterano l'etica romanès e che infondono nei Rom l'arrivismo e la necessità di possedere a tutti i costi il superfluo. Da qui le attività illecite. I Rom non preparati alla maniera dei caggé, cadono nel tranello. Cerchiamo ora di capire e di conoscere alcuni aspetti fondamentali della cultura e della vita dei Rom abruzzesi: la lingua, il sistema giuridico, la festa (fidanzamento e matrimonio), la morte.

La lingua

La lingua dei Rom abruzzesi detta "romanès" o "romaní ©hib" è strettamente imparentata con le lingue neo-indiane e conserva ancora fedelmente un gran numero di vocaboli di origine indiana. La lingua romani è arricchita di imprestiti persiani, armeni, greci, serbo-croati, di alcuni vocaboli tedeschi e di elementi dialettali dell'Italia centromeridionale a testimonianza dell'itinerario seguito dai Rom nel lungo cammino iniziato dal nord-ovest dell'India verso occidente.

giovedì 4 giugno 2009

Il rabbino Hen, massacratore di bambini

di Maurizio Blondet



Il Brasile ha finalmente concesso l’estradizione di Elior Noam Hen o Chen, il rabbino ricercato da Israele per avere, con diversi seguaci, commesso inenarrabili violenze su almeno otto bambini fra i tre e quattro anni. Sono stati usati martelli, coltelli e seghe; le piccole vittime sono state costrette a mangiare le proprie feci, a bere alcool mescolato con trementina, rinchiuse in una valigia per giorni, ustionate; è stato spillato loro sangue, forse per scopi rituali; uno dei bambini ha subito danni cerebrali permanenti ed è in stato vegetativo. Rabbi Hen o Chen era fuggito in Brasile dopo che i suoi delitti erano stati scoperti, nel marzo 2008. L’evento ha sollevato un velo sinistro sulla «religiosità» dei gruppi haredi più chiusi, fanatici e cabbalistici.L’orribile verità comincia ad emergere ai primi di marzo 2008, quando due bambini sono portati in un ospedale di Gerusalemme con bruciature e lesioni gravissime, il più piccolo in coma (i medici gli rileveranno fratture multiple del cranio e delle costole). Sono due degli otto figli di una donna di 38 anni, nata in una ricca famiglia della comunità ebraica di New York e che ha compiuto «l’ascesa» nella terra promessa una decina di anni prima; anche suo marito è tuttora cittadino americano (1).
Gli attrezzi usati dalla setta per torturare i bambini. In alcuni casi, si è appurato che le fratture delle piccole vittime sono state prodotte con i martelli
Dove abitano entrambi vengono arrestati per le violenze sui figli. La donna prima confessa di esserne l’autrice, e poi ritratta. Il marito viene rilasciato perchè dimostra di non essere stato in casa da giorni. In casa, nel quartiere ultra ortodosso di Beith Shemesh, la polizia trova oggetti usati della tortura, calze di nylon sporche di sangue usate per legare i bambini. I figli più grandicelli della coppia ammettono di essere stati sistematicamente maltrattati dalla madre per ordine del loro rabbino, Elior Chen, 30 anni. Vengono arrestati altri due adepti, due uomini (Shimon Gabai e Avraham Maskali, studente di yeshiva) che il rabbino aveva istruito per fare esorcismi (tikkunim) sui bambini della donna con pietre roventi e stufe al calor bianco. Il rabbino è lesto a fuggire ancor prima di essere incriminato, dapprima in Canada poi in Brasile, si ritiene nel seno di altre cellule della setta.Le indagini si rivelano subito difficili, ammette l’agenzia ufficiosa Ynet il 6 aprile, per l’omertà della «comunità haredi sui casi di violenza contro i bambini» (2). Violenza sessuale particolarmente frequente in quei gruppi chiusi e auto-isolati, anche se non risparmia gli altri strati della popolazione (alla magistratura arrivano 38 mila casi l’anno, su una popolazione di 6 milioni di abitanti). «Un caso recente e inquetante è quello di una madre di Netivot che molestava sessualmente il suo piccolo, e la cosa è venuta alla luce solo quando il bambino, che aveva cominciato a frequentare una scuola, prese a molestare un altro scolaro». La violenza sessuale sui bambini è condonata dal Talmud: una bambina sotto i tre anni può essere penetrata, perchè «è come un dito in un occhio, escono lacrime... la verginità torna a una bambina di tre anni» (3).Tali comportamenti sono tanto comuni», che in Israele esiste una Shlom Banecha Foundation per il sostegno delle vittime di pedofilia, abusi e incesti nelle comunità haredi. Il direttore, Doron Aggasi, dice: «Questi casi sono stati sepolti in passato, perchè gli haredi non vogliono rivelare niente agli estranei. Lavano i panni sporchi in famiglia. Ora però le cose vanno meglio, i rabbini sono più consapevoli sui temi dell’abuso sessuale e della violenza familiare». Convincere i membri della comunità haredi a collaborare con la polizia è quasi impossibile, dice Miki Miller, assistente sociale: «Essi credono che la loro società, per essere pura, dev’essere chiusa. E dietro la chiusura, nascondono una quantità di perversioni». Nel quartiere di Beit Shemes si ricorda ancora una famosa donna, a suo modo una rabbina, che per modestia nascondeva la faccia dietro un velo nero; questo particolare le attrasse una quantità di discepole. Poi si scoprì che la santa donna picchiava selvaggiamente i figli da anni; quando fu arrestata, uno dei figli confessò che la mamma li incoraggiava ad atti sessuali tra i fratelli, ancora bambini. Gli uomini, barbuti e riccioluti, vestiti di nero come polacchi del 18mo secolo, sono padri-padroni: picchiano le mogli e i figli di preferenza nello Shabbat, quando la famiglia è riunita per il pasto rituale. Le donne sopportano e tacciono, per mantenere l’onore della famiglia. La credibilità del marito come «studioso della Torah» (gli uomini non lavorano, solo «studiano la Torah») deve restare immacolata come la neve. Nel 2007, si sono registrayi ben 1.402 casi di donne che hanno chiesto aiuto dalle percosse e dalle violenze, e la polizia ritiene siano solo una minoranza infima; i casi non denunciati sono molto di più. La cosa sta peggiorando, dice Anat Zuria, una regista cinematografica che ha fatto documentari nell’ambiente ultra-religioso, perchè «gli hared stanno diventando ogni giorno più messianici, pensano che l’arrivo del messia sia imminente, e che verrà solo se le donne sono pure e modeste. Ragazzi e bambini vengono tenuti separati molto presto. Qualunque argomento sul sesso è bandito. Tutti questi tabù sono intesi a farli santi; spesso, ne fanno dei pervertiti».Nonostante le difficoltà, la polizia ricostruisce a poco a poco la vicenda. Elio Chen, il rabbino soggiogatore, è cresciuto nel quartiere di Romema a Gerusalemme, uno dei sette figli di una madre che serviva nel locale bagno rituale per le donne mestruate, e di un padre, Yaakov, fervente sionista religioso, militare da giovane in un commando e decorato per audacia. A fine degli anni ‘70, l’ex eroe di Tsahal accentua la sua religiositòà; accetta un modestissimo impiego al servizio del rabbinato-capo di Gerusalemme, dà ai suoi figli una educazione ultra-ortodossa, e sogna per Elior, il preferito, un brillante futuro come erudito della Torah. Compra molti libri religiosi; fra cui numerosi volumi sulla Kabbala, in cui Elior s’immerge fin dai 12 anni di età. Alla bar miztvah della giovane speranza, nel ‘92, c’era tutto il fior fiore del rabbinato sefardita e askenazita. Elior fu mandato a studiare alla yeshiva ultra-fanatica di Oz Levissachar, dove è rimasto a studiare la Torah e la cabbala per dieci anni. Fondata dal rabbino Haim Pinto per i ragazzi più poveri della comunità hassidica, questa scuola segue gli insegnamenti di Nachman di Bratislava (1772-1818): un bisnipote di Baal Shemtov, il fondatore dell’hassidismo, grande cabbalista-mago. Secondo la Enciclopedia Judaica si faceva passare per Messia (cosa che i suoi adepti negano) e secondo alcuni studiosi, era influenzato dall’anomismo di Sabbatai Zevi e Jacob Frank: la sua credenza nel tikkun olam, il risanamento kabbalistico del mondo, ha molte somiglianze con il pensiero di Sabbatai Zevi.Fatto sta che la yeshiva di rabbi Pinto non è affiliata a nessuna scuola hassidica particolare. Anzi, i suoi allievi sono in rotta con gli ambienti dell’establishment ultra-ortodosso, da cui si dicono «oppressi» e «feriti». Hanno formato un gruppo chiamato «Pitzuei Hanahal» (Brocca Traboccante, o qualcosa del genere), fortemente militante. I suoi membri, che non si sposano, spregiano l’ingegnamento nelle yeshivot più rinomate (dove del resto, i ricchi rabbini non li lasciano entrare) e si istruiscono vagando nelle boscaglie o sulle tombe di vecchi santi talmudici. Ma trovano il tempo di spargere il terrore fra gli arabi costretti a passare nel quartiere Shmuel Hanavi di Gerusalemme;lì hanno il loro covo, e lì picchiano i goym che ci passano. Spesso con violenza tale, da finire davanti alla magistratura israeliana, pur così leniente verso i «religiosi» picchiatori. Propprio per il suo estremismo religioso e militante, la scuola ha attratto ogni sorta di rifugiati dagli insediamenti resisi insopportabili agli altri membri, neo-convertiti americani all’ebraismo «duro», e scacciati dalle altre yeshivot per eccessi diversi.In questo ambiente è cresciuto Elior Chen, studente preferito di rabbi Pinto, che se l’è affiancato come «ba’al shi-ur» (assistente, o qualcosa del genere) e gli ha anche trovato una moglie askenazi; di famiglia prestigiosa per lui che, sefardita, non poteva aspirare alla figlia di un askenazita. Senza essere ancora formalmente rabbino, Elior già ha cominciato ad attrarre seguaci affascinati non solo dalla sua conoscenza della cabbala, ma per il fatto che la praticava, ossia che praticava la magia. Il giovanotto aveva dei «poteri». La sua popolarità crebbe tanto, dicono i suoi ex compagni di studi, che Elior cominciò a disprezzare la scuola Oz Levissachar, troppo «piccola» per le sue doti. D’altro canto, rabbi Pinto cercò di vietargli di insegnare e praticare la cabbala: «Ai giovani non è permesso insegnare la cabbala». Finirono per litigare.Elior Chen se ne andò, portando con sè diversi studenti: il primo nucleo dei suoi adepti, che gli obbediscono ciecamente. «Se lui ordina di buttarsi dalla finestra, loro si buttano», dice un ex studente. Rabbi Chen dominava la vita di queste persone totalmente. Decretava come dovessero educare i figli. Combinava matrimoni fra i seguaci, o li rompeva. La ricca ebrea americana che ha torturato i figli ha avuto l’ordine di separarsi dal marito, ed entrambi hanno obbedito senza fiatare. Il marito, anche lui americano, se n’è andato di casa lasciando gli otto figli alla moglie e agli «assistenti» di rabbi Chen. Per questo, almeno, s’è salvato dall’incriminazione, Non ha partecipato alle torture.Adesso un altro rabbino, Ytzak Batzri, ricorda che circa due anni prima negli ambienti «mistici» si cominciava a parlare di un «santo nascosto», un giovane talmudico con poteri sovrannaturali, da cui la gente accorreva per farsi fare a pagamento esorcismi e purificazioni (tikkunim), per farsi dare amuleti, acqua «benedetta» e partecipare ad altri rituali più inquietanti. Di fatto, rabbi Elior Chen aveva cominciato ad «invocare i nomi» delle potenze invisibili per «influenzare la realtà», e secondo i suoi seguaci otteneva guarigioni e faceva miracoli. La «invocazione dei nomi» fa parte della cabbala, o della sua pretesa di «rivelare i segreti della creazione». E’ un settore proibito, contro cui metteva in guardia i neofiti anche il grande (diciamo) Isaac Luria, il massimo cabbalista del sedicesimo secolo.«Chi pratica l’invocazione dei nomi si espone all’influsso di spiriti maligni e demoni», dice rabbi Batzri ad Haaretz, «come Samael e Lilith. Certamente sono stati spiriti del genere ad indurli a compiere atti innominabili sui bambini, come i pagani bruciavano i figli a Moloch» (4).Un cognato di Chen dice ad Haaretz: «Certe cose le ho viste coi miei occhi. Poteva starsene seduto a far muovere le cose nella stanza recitando versi. Una volta mi ha letto la mano e mi ha detto cose che sono sicuro non potesse sapere». Un altro studente della yeshiva, che non vuol dire il suo nome perchè convinto che Chen possa lanciargli il malocchio a distanza: «Era uno che poteva guidare da Gerusalemme a Tel Aviv e poi al nord e ritorno senza pagare niente... Chiedeva quanti soldi ci volevano, e diceva: «Prendi un libro qualunque e aprilo» e c’erano dentro i soldi. L’ho visto coi miei occhi». Lo Shin Bet, la sicurezza interna, conosceva Chen e il suo gruppo come «estremisti politici molto decisi».Nel maggio 2005, quando Sharon ordinò il ritiro degli insediamenti ebraici a Gaza e i coloni si ribellarono con vasti disordini, la polizia politica fu informata di un gruppuscolo che aveva in animo di provocare una guerra totale contro tutti gli arabi, compiendo un attentato contro la spianata delle moschee, il Monte del Tempio per gli ebrei. Due allievi di Chen, due fratelli di nome Avtalion e Akiva Kadosh, si preparavano a sparare un missile «Lau» verso il monte del Tempio da una scuola rabbinica collegata, la Bratslav Shuvu Banim yeshiva; a tirare granate alla polizia sopraggiunta, e poi a suicidarsi. Ci furono degli arresti e un processo. Naftali Wurtzburger, uno dei legali d’ufficio assegnati al gruppo, ricorda: «Erano allucinati della setta di Bratslav, parlavano di voler redimere il mondo facendo saltare il Monte del Tempio». Si ricorda di Chen: «Era il capo, il guru. Ma non era solo una personalità dominante; è che tutti parlavano a livello religioso. Parlavano di redimere il mondo con azioni grandiose, erano messianici. Alla fine anche lo Shin Bet si convinse di avere a che fare con degli allucinati innocui».Fatto è che dopo questo episodio, rabbi Chen rese il suo gruppo ancora più chiuso: benchè la sua fama di «santo nascosto» e miracoloso continuasse a crescere, rifiutò altri adepti e mantenne solo un nucleo di fedelissimi, di non più di 15 persone su cui esercitava un potere psichico totale. E’ stato lui a ordinare alla madre degli otto bambini di abbandonare il marito, e ad espellere l’uomo dal gruppo. Gli agenti sospettano che fosse nata una relazione sessuale fra il rabbino-guru e la donna, perchè dopo, il rabbino stava spesso nella casa da cui aveva fatto cacciare il marito.
Rabbi Elior Chen (terzo da sinistra, con l’abito bianco) con tre dei suoi seguaci, co-imputati nei delitti
I capi religiosi ebraici sono ambivalenti. Yona Metzger, il rabbino-capo degli askenaziti, dice che i genitori e Chen devono essere «scomunicati»; Vicki Polin, psichiatra che ha trattato vittime di abusi del genere, scrive una lettera aperta in cui esprime meraviglia: «E’ strano che rabbi Yona Metzger faccia tali dichiarzzioni, tanto più che egli è stato accusato anni fa di abusi sessuali con quattro clerici maschi». Rabbi Levi Brackman, famoso per un libro intitolato «Jewish Business success», invita a non criminalizzare l’intera comunità haredi.Intanto Chen, dal Canada, si trasferisce in Brasile - Stato che non ha un accordo di estradizione con Israele - dove vive protetto dalla comunità ebraica locale. Ma infine la comunità brasiliana lo spinge a consegnarsi, perchè la faccenda è diventata troppo pubblica (lo ricerca anche l’Interpol) e il rabbino massacratore danneggia l’immagine degli ebrei. Per lunghi mesi Chen, assistito da avvocati ebrei, conduce una lotta giudiziaria per non essere estradato. Singolare l’argomento che usa: siccome i fatti criminosi sono avvenuti a Beitar Ilit dove abitano i membri della setta, e siccome Beitar Ilit è un insediamento abusivo in Cisgiordania ossia in territorio «autonomo» palestinese, la difesa del rabbino sostiene che Israele non ha alcun diritto legale di esigerne la consegna. Se mai, a chiedere che il rabbino sia estradato dovrebbe essere l’Autorità Nazionale Palestinese.Un bell’esempio di «chutzpah». E un grave imbarazzo per lo Stato ebraico. Il ministero della Giustizia israeliano deve spiegare per iscritto alla corte suprema brasiliana, dove la causa è giunta, che la Cisgiordania è territorio occupato da Israele e non già - come fanno notare i difensori di Chen - quello che sostiene il governo israeliano, un territorio autonomo o in via di autonomia. Alla fine la spinosa questione trova un escamotage da legulei: la Autorità Palestinese, viene detto, ha deferito ad Israele questo genere di rapporti con l’estero... Il Brasile, stante anche la gravità dei delitti di cui Chen è accusato, consegna il «santo nascosto» all’entità sionista.Il processo, imminente, promette di diventare una «cause célèbre», forse distruttiva per quelle che gli studiosi chiamano «il misticismo ebraico», i suoi metodi, le sue superstizioni e le sue perversioni e la sua amoralità (ricordiamo che al «misticismo» haredi appartiene il potente gruppo Lubavitcher).Possiamo essere certi che sui nostri media non ne apparirà una riga.




1) Jonathan Lis, «Parents held in case of Jerusalem child abuse», Haaretz, 15 marzo 2008.

2) Yael Branovsky, «State helpless in face of skeletons in haredi closet», YNet.News, 3 aprile 2008.

3) Trattato Ketuboth, 11b. Si veda anche il Trattato Sanhedrin, 55b: una bambina di tre anni e un giorno «può essere presa in matrimonio per coito». «Sanhedrin, 54b: un ebreo «può sodomizzare un bambino se questo ha meno di nove anni». O ancora Ketuboth 11°: «Quando un bambino di meno di nove anni ha rapporti sessuali con una donna adulta, o quando una bambina sotto i 3 anni è accidentalmente ferita (nell’imene, evidentemente per masturbazione) con un pezzo di legno, non vale a loro riguardo l’accusa di non-verginità».

4) …«Child-abuse case leaves investigators stunned; Israel seeks to prepare international warrant, extradite rabbi», Kingston Whig-Standard - April 9, 2008, http://www.thewhig.com/ArticleDisplay.aspx?e=978454

venerdì 8 maggio 2009

ITALIA 1919-1921. LA GUERRA CIVILE DIMENTICATA









di Michelangelo Ingrassia






“La storia italiana non ha episodi così atroci come quello di piazzale Loreto. Nemmeno le tribù antropofaghe infieriscono sui morti. Bisogna dire che quei linciatori non rappresentavano l’avvenire, ma un ritorno all’uomo ancestrale (che forse, era moralmente più sano dell’uomo civilizzato)”.
Con queste parole Benito Mussolini - il cui corpo proprio in quel piazzale sarebbe stato vittima di un ancor più atroce oltraggio - commentava sul Popolo d’Italia del 26 giugno 1920 uno dei tanti fatti di sangue di quella guerra civile del 1919-1921 dimenticata: durante gli scontri seguiti ad uno sciopero di ferrovieri, i socialisti massimalisti avevano ucciso un carabiniere ed avevano poi lungamente infierito sul suo cadavere; lì, in quello stesso piazzale milanese dove nel 1944 sarebbero stati trucidati quindici italiani come rappresaglia per l’uccisione partigiana di due soldati tedeschi, e dove nel 1945 “la carogna del Duce dei malfattori - come scrisse velenosamente il comunista Pajetta - sarebbe stata esposta alla gogna”.
Per una di quelle incredibili coincidenze che a volte la Storia vuole e prepara - forse per ricondurre gli uomini sulla via del rispetto ad essa, ai suoi cicli, al suo eterno ritorno - piazzale Loreto si è macchiata del sangue delle due guerre civili italiane seguite alle due guerre mondiali: quella del 1943-45 e quella del 1919-1921. Entrambe sono state maltrattate da una vulgata ideologica che - parafrasando Rosario Romeo - ha contrapposto alla storia accaduta una storia alternativa; in entrambi i casi si è voluto evitare di mettere sullo stesso piano comunisti e fascisti; da qui falsificazioni, deformazioni e mistificazioni che hanno manipolato la prospettiva politica di quell’epoca compresa tra le due guerre civili. Se quella degli anni ‘40 è stata a lungo negata, la prima guerra civile italiana è stata rimossa, come dimostra una bibliografia povera e datata. In questo modo le responsabilità e le colpe di quanto accadde allora in Italia sono state addossate solo al fascismo. E’ così che si è tolto di mezzo il ‘pericolo rosso’, si è cancellata la violenza comunista, si sono occultate le vittime fasciste e sono rimasti in campo solo il ‘pericolo nero’ e la violenza squadrista. Tutto questo è servito per alterare il giudizio storico sulle origini del fascismo. La storiografia marxista, infatti, sostiene che il movimento fascista fu sin dalla sua nascita una gratuita e prepotente esplosione di violenza. Lo sviluppo del fascismo nella vita politica nazionale è stato, in realtà, ben più problematico e basta rifarsi al solito De Felice per prenderne atto. Ciò che sfugge dalla versione comunista dei fatti è che il fascismo nacque “come reazione a un clima di violenze - scrive Adriano Romualdi - instaurato dalle sinistre e tollerato da governi democratici fiacchi e imbelli”. Fermiamoci su questo ‘clima di violenze’ ed inquadriamolo storicamente nel contesto politico del tempo in cui sorse il movimento fascista. Sono, quelli del 1919-21, gli anni del ‘biennio rosso’; in Italia, come nel resto d’Europa, il massimalismo socialista - dal quale nascerà nel 1921 il Pci - vuole “fare come in Russia”. Serrati e più ancora Bordiga e Gramsci, vogliono “sovietizzare l’Italia”. Il neonato Partito Popolare di Sturzo, la componente socialista riformista di Turati e della Cgl, l’universo liberaldemocratico giolittiano, salandrino e nittiano mostrano tutta la loro debolezza ed incapacità a realizzare una ‘grande politica’ che possa disinnescare il massimalismo. Che peraltro non sa uscire dal velleitarismo di una rivoluzione proclamata a parole e non sa intercettare i nuovi sentimenti che animano la massa tornata dalle trincee. Il biennio rosso anche in Italia genererà la ‘grande paura’ di una rivoluzione come quella del 1917. Da qui proviene quel ‘clima di violenze’ che sfocia in quella che Francesco Coppellotti ha definito “l’unica guerra civile combattuta dagli italiani non per procura” e che terminerà con “la rivoluzione nazionale del fascismo fondata sull’alleanza Mussolini Gentile”. Ecco perché va ricordato che non ci furono solo le bastonature di deputati antifascisti e le spedizioni punitive contro Camere del Lavoro, sedi di giornali o di partito e così via. Dalla ricostruzione storica di quel periodo drammatico non devono sfuggire le violenze massimaliste ed il terrore rosso, il conflitto fra ‘Guardie Rosse’ e ‘Squadre d’Azione’, fra ‘Arditi del Popolo’ e ‘Camicie Nere’, con morti e feriti e stragi da entrambe le parti e tra le forze dell’ordine; soprattutto non devono sfuggire le responsabilità prime. Non si tiene in conto, ad esempio, che ancor prima dello squadrismo agrario nelle campagne padane dilagò l’estremismo massimalista. “Nel 1919-20 - ha documentato De Felice - il potere dei ‘leghisti’ fu pressoché assoluto; i proprietari, le amministrazioni locali, lo stesso Stato erano impotenti”. I massimalisti erano contrari ad ogni riforma agraria che prevedesse la costituzione di tante piccole proprietà coltivatrici e organizzarono la lotta in modo assolutamente violento. Le Camere del Lavoro detenevano il monopolio assoluto della mano d’opera e quei braccianti che non si adeguavano alle direttive ‘rosse’ o non aderivano alle organizzazioni di sinistra venivano boicottati, intorno a loro in paese si creava il vuoto assoluto. “In periodo di sciopero gli incendi dei fienili, la distruzione dei raccolti, l’uccisione dei capi di bestiame, le violenze ai proprietari e ai contadini coltivatori - scrive Luigi Preti - diventavano frequentissimi”. Una situazione che si ripercosse contro lo stesso proletariato agricolo che, nel nome della parola d’ordine mussoliniana “la terra a chi la lavora” passò con i fascisti. E’ nel 1921, infatti, che dilaga lo squadrismo fascista nella pianura padana e la reazione è violenta tanto quanto lo era stata l’aggressione massimalista. In quell’anno le organizzazioni sindacali bracciantili fasciste si affollano di lavoratori agricoli delusi dall’inconcludente estremismo dei socialisti massimalisti e dall’attendismo sterile dei socialisti riformisti. Dalle campagne alle città, alle fabbriche, si ripetette lo stesso schema: terrore rosso e successiva reazione nera; violenza chiamò violenza, sangue chiamò sangue; fu guerra civile, voluta e scatenata dai leninisti di casa nostra, ed è arrivato il momento di prenderne atto e di ricordare accanto alle vittime rosse anche quelle vittime nere ingiustamente ignorate dai manuali di storia delle nostre scuole. Come lo studente Pierino Dal Piano, figlio di una portinaia, assassinato a Torino il 2 dicembre 1919 dai dimostranti di sinistra perché si era rifiutato di gridare “viva la Russia” ed urlò “viva l’Italia!”. Come Mario Sonzini, lavoratore della Fiat, sequestrato a Torino il 22 settembre 1920 da un “tribunale del popolo” che lo condannò ad essere gettato vivo negli altiforni perché nazionalista; poiché questi erano spenti il Sonzini venne giustiziato con un colpo di pistola. Ed allo stesso modo morì l’operaio Costantino Scimula, ventenne. E tralasciamo la strage del Teatro Diana a Milano; l’assalto rosso alle carceri di Mantova durante il quale morì la moglie di un guardiano; la sparatoria anarchica del 26 giugno 1920 contro un treno nei pressi di Ancona che costò la vita a sei passeggeri; i fatti del novembre 1920 a Bologna dove le Guardie Rosse lanciarono bombe a mano sulla folla assiepata davanti al Municipio provocando nove morti mentre nell’aula comunale, dai banchi di Sinistra, si aprì il fuoco contro i consiglieri della Destra ed il nazionalista Pietro Giordani cadeva ucciso, tutto perché i fascisti volevano togliere la bandiera rossa issata sul pennone del palazzo comunale. Sono fatti tra centinaia di episodi simili che lasciano capire quale fu lo stato d’animo ed il clima politico che si creò in Italia durante il biennio rosso. E’ dopo questi fatti - non prima - che si scatena la violenza fascista. Certo, in modo altrettanto estremo e più organizzato. Ma va ricordato che il movimento fascista che nel 1920 contava circa ventimila iscritti, passò a duecentomila nel 1921; e va tenuto in considerazione che esso non si sarebbe sviluppato fino ad affermarsi se non fosse stato sostenuto ed appoggiato dal consenso dell’opinione pubblica stanca delle inutili violenze rosse. “Il fascismo creò la dittatura - nota Adriano Romualdi - ma la maggior parte di coloro contro cui si esercitava la sua violenza volevano anch’essi una dittatura, una dittatura di tipo sovietico”. Era stato il socialismo massimalista a scatenare la violenza con il mito dell’Italia ‘sovietica’, i fascisti contrapposero il mito dell’Italia ‘Romana’ e fu guerra civile. Non si deve tuttavia commettere l’errore di credere che la coscienza di alcuni capi politici non sia stata profondamente turbata e scossa da quel che stava accadendo; fra tanta insensibilità ci fu pure chi visse in modo drammatico gli eventi. Qualche mese prima della marcia su Roma, Nenni e Mussolini ebbero una lunga conversazione a Cannes, lontani dalle contingenze politiche che li avevano portati su fronti contrapposti ma che non avevano incrinato l’antica amicizia. Nenni accusò il suo antico compagno di essere diventato strumento degli interessi antiproletari, Mussolini rispose con un diniego e ricordò che “quando ho parlato di pace mi si è riso in faccia; ho dovuto allora accettare la guerra”. Nenni replicò dicendogli: “dimentichi che sei stato il capo del Partito Socialista e che probabilmente gli operai sui quali s’avventano le tue camicie nere erano divenuti socialisti al tuo appello”. Al che Mussolini ribattè: “so che i morti pesano. Spesso penso al mio passato con profonda malinconia. Ma non ci sono soltanto le poche decine di morti della guerra civile. Ci sono le centinaia di migliaia di morti della guerra. Anche questi, bisogna difenderli”. Nelle parole di questa conversazione vi è tutta la complessità delle origini del fascismo e di quella guerra civile dimenticata. Il vero nodo da sciogliere nella storia italiana non è negli eventi del 1943-45, ma in quelli del 1919-21.

giovedì 22 gennaio 2009

Il Papa cancella la scomunica ai vescovi nominati da Lefebvre




di Andrea Tornielli





Roma - Benedetto XVI ha deciso di revocare la scomunica ai quattro vescovi consacrati da Lefebvre nel 1988. Il decreto, che il pontefice ha già firmato, sarà pubblicato entro la fine della settimana. Il superiore della Fraternità San Pio X, Bernard Fellay, e gli altri tre vescovi, Alfonso de Gallareta, Tissier de Mallerais e Richard Williamson non saranno dunque più scomunicati.
La decisione di Papa Ratzinger è maturata negli ultimi mesi, in seguito alla lettera con la quale monsignore Fellay aveva chiesto la revoca del provvedimento comminato da Giovanni Paolo II nel 1988, dopo che l’arcivescovo Marcel Lefebvre, rifiutando in extremis un accordo già siglato con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, consacrò vescovi quattro giovani sacerdoti del clero della Fraternità. Un atto scismatico, perché quelle consacrazioni non erano legittimate dal pontefice, giustificato invece da Lefebvre per ragioni di sopravvivenza della sua comunità tradizionalista. Una comunità che non aveva accettato la riforma liturgica post conciliare né alcuni decreti del Vaticano II, peraltro firmati dallo stesso Lefebvre, come nel caso di quello sulla libertà religiosa. Scomunicati, ventun anni fa, furono lo stesso Lefebvre, l’anziano vescovo brasiliano Antonio de Castro Mayer, che partecipò alla consacrazione avvenuta in Svizzera (entrambi da tempo scomparsi), e i quattro neovescovi. Il cammino di riavvicinamento, iniziato con Papa Wojtyla dopo che i lefebvriani guidarono un pellegrinaggio a Roma per il Giubileo del 2000, è continuato con alti e bassi. Ma ha subito un’accelerazione dopo l’elezione di Ratzinger. La Fraternità ha chiesto al pontefice di liberalizzare la messa antica per tutta la Chiesa. E questo Benedetto XVI ha fatto, con il motu proprio «Summorum Pontificum», pensando non tanto e non solo ai lefebvriani, ma soprattutto a quei tradizionalisti rimasti nella piena comunione con Roma ma spesso penalizzati o guardati con sospetto perché rimasti legati alla liturgia preconciliare. Poi è stata chiesta la revoca della scomunica - che, va precisato, ha riguardato soltanto i vescovi, non i cinquecento preti della Fraternità né tantomeno i fedeli che ne seguono le celebrazioni - e richiedendola, Fellay ha voluto manifestare l’attaccamento al Papa e la volontà della piena comunione. I lefebvriani hanno anche compiuto di recente un pellegrinaggio a Lourdes, dove i quattro vescovi hanno lanciato l’iniziativa di far recitare ai fedeli un milione e settecentomila rosari per chiedere alla Madonna che la scomunica fosse tolta.
Il decreto che sarà reso noto nelle prossime ore non significa di per sé la soluzione del problema lefebvriano, ma rappresenta un passo importante. Il prossimo passò sarà un accordo che dia alla Fraternità San Pio X uno status giuridico nella Chiesa cattolica. La decisione di revocare la scomunica è un atto di grande magnanimità di Benedetto XVI, che va nella linea di sanare fratture e divisioni nel corpo ecclesiale e di riaccogliere nella piena comunione oltre ai vescovi, anche i sacerdoti e i fedeli. Nel giugno scorso il cardinale Darío Castrillón Hoyos, presidente della Pontificia commissione «Ecclesia Dei», aveva posto a monsignor Fellay condizioni per proseguire il dialogo con la Fraternità, chiedendo ai lefebvriani «l’impegno a una risposta proporzionata alla generosità del Papa», a «evitare ogni intervento pubblico che non rispetti la persona del Santo Padre e che possa essere negativo per la carità ecclesiale», a «evitare la pretesa di un magistero superiore» a quello del Papa, e di «non proporre la Fraternità in contrapposizione alla Chiesa». Infine, l’impegno «a dimostrare la volontà di agire onestamente nella piena carità ecclesiale e nel rispetto dell’autorità del Vicario di Cristo».

mercoledì 21 gennaio 2009

Il padrone di casa



In libreria il romanzo “Il padrone di casa” di Alberto Samonà

Lo studio di sé è il filo conduttore de Il padrone di casa, romanzo epistolare del giornalista Alberto Samonà in libreria per le edizioni Robin di Roma.
La narrazione del libro si svolge secondo una scansione temporale di dodici mesi, contrassegnati, ciascuno, da una lettera che il protagonista del libro, un uomo sui quarant’anni, scrive ad un’amica lontana.
L’uomo cerca risposte e pone le proprie domande alla donna, ma la destinataria delle lettere resta in silenzio, mentre un ritmo circolare, evidenziato dalla mancanza di una risposta, contrassegna lo scorrere del tempo.
Il protagonista è “dipinto” dall’autore come un ricercatore addentro agli studi esoterici con un passato di militante di destra, che, però, ad un certo punto, complice una causa esteriore, si rende conto di come abbia beatamente trascorso tutta la propria vita nel sonno, nell’appagamento dei propri ego, ingigantiti anche dagli stessi studi da lui stesso svolti, nonostante lo scopo di questi fosse, in origine ben diverso e cioè, un fine di “liberazione”. Da qui, una “presa in carico” della propria situazione e il tentativo di uscirne, documentato dalle dodici lettere che il protagonista scrive all’amica, apparentemente semplici resoconti di vita ordinaria, in realtà tappe di un simbolico intimo viaggio in se stesso, o comunque, attività preparatorie al compimento del viaggio.
La donna resta muta per tutto il libro, fino a quando, forse, si può incominciare a sentire la voce del “padrone di casa”, il solo in grado di mettere ordine fra le mille altre voci che convivono nell’autore delle lettere.
Non mancano riferimenti a Evola e Guenòn e pagine interamente ispirate al pensiero tradizionale. Evidente anche l’influenza dell’insegnamento di Gurdjieff, nonostante l’autore, per rispetto e discrezione, non citi mai la fonte: un modo elegante che scongiura il rischio di appesantire la lettura.
Alla lettura lineare che lo fa somigliare ad un ordinario libro di narrativa, però, se ne aggiunge una meno evidente, “esoterica”, perché nelle pagine del romanzo è come se vi fossero molteplici segnali di un universo nascosto, che non appare immediatamente, ma che si disvela solo a chi sa guardare oltre, secondo il metodo tradizionale della conoscenza sintetica e analogica.

Alberto Samonà, Il padrone di casa, Edizioni Robin (Roma), pagg. 156, prezzo 12 euro.



Alberto Samonà, autore e giornalista siciliano, ha scritto diversi libri a contenuto simbolico, fra cui Le colonne dell'eterno presente (ila-palma 2001), La Tradizione del Sé (Atanòr, 2003), Riti pasquali (AA.VV. Ac-Mirror 2005), Tarocchi (AA. VV. Ac-Mirror, 2005). Dal suo racconto intitolato La bambina all’Alloro, il cantastorie iracheno Yousif Latif Jaralla ha tratto lo spettacolo teatrale Le orme delle nuvole. È componente della giuria nazionale del concorso letterario “Subway letteratura”.

giovedì 15 gennaio 2009

Santa Teresa d'Avila









di Pietrangelo Buttafuoco











Formidabile e terribile fu santa Teresa d’Avila. Mistica – scrittrice feconda, preda di frequenti deliri estatici – la santa, “inconfutabilmente isterica”, fu un antifemminuccia e perciò donna tenace e rude. Fu potente e austera ma sempre in balia d’irrefrenabili esaltazioni. Fondatrice dell’ordine delle carmelitane scalze i cui conventi ancora oggi ¬– nella Spagna dei desideri e dei genitori A e B – narrano l’età profonda della Controriforma, Teresa fu donna che fece della sua vita terrena un inno al Dio della fede universale cattolica.Un sorprendente racconto di lei, specie in tempi in cui la religione gode di cattiva comunicazione, ce lo porge Julia Kristeva in “Teresa, mon amour”. Nel sottotitolo si legge: “Santa Teresa d’Avila, l’estasi come un romanzo”, è un corposo volume tradotto da Alessia Piovanello ed edito in Italia da Donzelli (euro 35,00). Santità e misticismo sono interpretati in chiave psicanalitica dalla scrittrice, in modalità in vero non sempre convincenti, quasi la mistica Teresa recalcitrasse ad essere imbrigliata in categorie che non le appartengono. Le tante citazioni riportate nell’opera, tratte dagli scritti della santa, bastano a spazzar via le troppe sovrastrutture interpretative con le quali la Kristeva che premette di non essere credente, prova spiegare il cammino verso la santità di Teresa, che entrerà in convitto nel piccolo collegio agostiniano di Santa Maria de Gracia, ad Avila, a sedici anni. In età più che matura per l’epoca e per una creatura chiamata alla santità.Teresa de Ahumada de Cepeda, era nata il 28 marzo 1515 ad Avila, in Spagna. La cattolicissima Spagna nel 1500 manda agli antipodi la propria flotta per arricchire le casse dello Stato, ma teme le conseguenze dello scisma luterano che sta insanguinando l’Europa nello scontro fratricida tra cattolici e protestanti che incrinerà per sempre il segno medievale della cristianità universale. Teresa è la terzogenita di don Alonso Sanchez de Cepeda e dona Beatriz de Ahumada. La bambina porta il nome della nonna materna e della bisnonna paterna. Il nonno paterno, Juan Sanchez vive a Toledo ed è un “marrano”, un ebreo costretto a convertirsi al cattolicesimo, obbligato a indossare lo scapolare giallo che indicava i convertiti che in segreto continuavano a professare la loro antica religione. In realtà il ricco mercante è creditore di quegli stessi suoi concittadini che lo scherniscono, e l’umiliazione da lui patita, sembra più che altro formale, se per molto meno l’Inquisizione soleva comminare pene ben più terribili. Il padre di Teresa ha già alle spalle un primo matrimonio e due figli. Rimasto vedovo, sposa l’elegante e delicata Beatriz, donna colta e discreta che amava leggere con la bambina Teresa romanzi cortesi e storie di santi. Beatriz partorirà dieci figli e, sfinita dalle gravidanze, morirà a trentatrè anni. Teresa ha tredici anni e deve imparare ad occuparsi della numerosa famiglia. La fortuna accumulata dal nonno, è stata dilapidata dal padre: vivere da hidalgo è molto più dispendioso che vendere sete. Tutta la vita Teresa avrà in mente due cose: la honra paterna, l’onore, a cui tutto bisogna sacrificare pur di mantenerlo intatto e la triste fine di dona Beatriz: nulla dura per sempre, neanche l’amore terreno. L’hidalgo è il nobile che serve il re ed ha il privilegio di non pagare le tasse. I de Cepeda finiscono in tribunale per provare il loro status di hidalgos. Allo stesso modo, la scelta religiosa è anche una fuga “dallo star soggette ad un uomo” come lei stessa scriverà. Perfino le regine non sfuggono al destino femminile di partorire al servizio dei disegni politici della monarchia. Teresa riuscirà ad affrancarsi dal destino che il suo sesso le ha disegnato restando figlia per sempre. Non è facile fuggire dal mondo. Teresa è una giovane donna che conosce le lusinghe dell’amore. Trascorre da un ricevimento all’altro, partecipa alle feste in onore della regina Isabella, e di Carlo V quando Sua Maestà si ferma ad Avila a visitare la città. Eppure bisogna essere capaci di sfidare il mondo, di esiliarsi al di là di quel che sembra tutto, ed invece è niente. “Quanta cura ponevo per non perdere quello che credevo fosse l’onore del mondo! Nel cercarlo ponevo, da persona vana somma cura”. E poi prende la sua decisione, tiene testa al padre, uomo di fede ma che non vuol sentir parlare di convento. Riesce a convincerlo, ma deve sostenere una lotta durissima con se stessa. “Quando uscii dalla casa di mio padre, provai tanto dolore che non credo di sentirlo maggiore in punto di morte”. Diventare monaca, entrare nel claustro è, forse, anche una forma di risarcimento alla sfortunata dona Beatriz, poiché in spagnolo l’utero si chiama claustro materno. Diventare monaca è pareggiare i conti del nonno marrano e del padre che soleva leggere i libri sacri alla famiglia riunita. Il rapporto di Teresa con Dio è voluttuoso, ne partecipa il corpo che sposa la Passione di Cristo facendola sua, è la realizzazione del vero onore, l’attaccamento al Dio della Croce. E’ attraversata dalla passione e si identifica con questa sofferenza. Consapevole del raro privilegio che la sua condizione le offre, rivive come beatitudine tutta la sofferenza della Croce con i flagelli, le spine e i chiodi. Descrive i suoi rapimenti – l’uscita dalla propria condizione umana, sensibile – per diventare onda di un oceano che l’avvolge e la travolge. La figura del Dio-uomo, introdotta dal messaggio evangelico, rompe il rapporto tradizionale tra la divinità trascendente e l’uomo, separato dall’abisso della finitezza. L’orante si rivolge ad un Dio, l’Iddio infinitamente lontano dall’umanità mortale ferita dal peccato di Adamo. La rivelazione operata dal Cristo, congiunge nella sua umana persona ciò che da sempre era separato, l’umano e il divino, la trascendenza e l’immanenza, il tempo e l’eternità. Tutto nella sofferenza vissuta dal Dio incarnato. Teresa nel suo rapimento estatico, sperimenta letteralmente l’uscita da sé, come vera conoscenza del proprio io. Conoscersi perdendosi nell’amore dell’Altro. Il cammino dell’uomo alla ricerca della propria coscienza può avere molti inizi e infinite direzioni. Se la civiltà cristiana affonda le proprie radici nella filosofia greca, è Socrate l’iniziatore del dialogo che scopre l’interiorità dell’uomo come sua essenza, ed è Cartesio che la razionalizza nell’intuizione del “Cogito” come pensiero fondante dell’esistenza umana. Teresa, appena prima di Cartesio, fonda l’esistenza di sé fuori da sé. Si potrebbe definire, il suo, il terzo e sublime livello di conoscenza teorizzato da Spinoza, dopo quello fallace dei sensi e quello razionale dell’intelletto che procede per dimostrazioni. Abbandonate le plaghe del pensiero razionale che avvolge il mondo dell’esperienza nelle categorie della ragione, si parte per un’avventura magnifica che trascende l’esistenza individuale per trasportarla nei cieli dell’infinito Essere. Kristeva interpreta il rapimento mistico di Teresa come un trasfert freudiano che realizza la conoscenza di sé nel legame con l’altro, in questo caso con Dio. E’ un mistero ineffabile. Mistero è termine greco, deriva da muo, stare chiuso, rinserrato, coltivare la propria interiorità inaccessibile e sprofondare nell’Altro. L’unione mistica è tema che si perde nel tempo, si nutre della filosofia medievale, la quale ha a sua volta un grande debito con la tradizione neoplatonica del perdersi nell’Uno-Bene e risale da questa al Platone profeta che fonda i cieli della metafisica abitati dai sommi archetipi, le divine idee del Bello, del Bene, del Giusto e approda nella contemplazione aristotelica del Divino come intelletto separato che attrae l’intero cosmo con la purezza intangibile della sua perfezione. La presenza del Cristo nell’Eucarestia, permette al credente l’inaudito privilegio di incorporare Dio. Mangiare del corpo di questo Dio incarnatosi per riscattare l’umanità. Com-unione. Quanto più la Chiesa trionfa nel tempo umano, si radica nelle abitudini dei popoli, scandisce i momenti centrali della vita dell’uomo, la nascita purificata nel battesimo, il matrimonio, sacramento dell’unione indissolubile tra l’uomo e la donna e la morte celebrata nel rito funebre dalla comunità, tanto più perde il mistero. La Chiesa si apre al mondo, conquista proseliti, diviene corpo sociale e perde il mistero. Il conflitto tra Lutero ed Erasmo tra Riforma e Controriforma, riguarda anche questa questione. Il monaco agostiniano aborre il rapimento mistico che considera un rigurgito di stregoneria, un cedimento alla lussuria carnale ed esalta il rigore morale che deve tenere a freno le tentazioni della carne, i cattolici della Controriforma invece, concedono dei varchi all’esito mistico della fede. Teresa e le sue visioni si inseriscono in questo contesto. Teresa è la santa della Controriforma. Prima che trionfi la razionalizzazione dell’esistente e la celebrazione del metodo scientifico di Galileo, Teresa fa in tempo ad innalzare un inno al desiderio del corpo, freudianamente sublimato nell’unione con il corpo di Cristo. Il barocco è il trionfo della sensualità nell’arte, del corpo esibito, delle chiese stracolme di smalti e ori, della ricchezza rigogliosa delle forme, che esprime in ogni dove il trionfo della creazione. Il secolo dei Lumi, il ‘700 francese, spazzerà via questo misticismo considerato una debolezza da esteti, La filosofia di Kant che esalta la fede illuminista nella ragione, farà della legge morale un imperativi categorico che ogni uomo deve imporre a se stesso. Un abisso separa il filosofo di Koninsberg dalla santa di Avila anche se entrambi appaiono lontani dalla decadenza morale e spirituale di oggi, ma il genitore A e il genitore B dell’attuale Spagna e perfino Pedro Almodovar sono figli di Kant, non certo della sensualissima ed eroticissima Teresa. Il tentativo del primo di imbrigliare l’umanità nella ferrea rete della legge morale, non pare aver sortito particolare successo, mentre la fuga di Teresa dal mondo, “Conosciti in Me” appare una follia incomprensibile ai più. Agli occhi dello psicanalista, il corpo femminile è istintivamente pronto all’abbandono perché è dimora del desiderio, essendo concepito come un unico organo sessuale inebriato dal desiderio dell’oggetto d’amore, che nel trasfert erotico si sottrae all’infinito, e si sublima nell’esperienza mistica. Hegel trova nei sermoni di mastro Eckhart, la descrizione dell’esperienza umana dell’abbandono nel “Grund”, l’abisso divino in cui perdersi per ritrovare autenticamente se stessi. L’angoscia della separazione è del resto un trauma dal quale secondo Freud, l’uomo non guarisce mai, per tutta la vita. Espulso dall’utero materno, per tutta la sua esistenza cercherà di sanare questa frattura, ritrovando la Madre. Gli esiti mistici diventano secondo questa lettura una modalità di ricomporre la lacerazione immergendosi nell’Altro che può essere inteso come Madre e Padre, un femminile che coincide con il maschile, un annientamento delle individualità e dunque un superamento della originaria separazione. Si toglie la nascita, morendo d’amore, immergendosi panicamente e divenendo corpo mistico. La grande differenza è che l’esperienza analitica, non ha esiti trascendenti, mentre la fede è ovviamente al centro dell’incontro con Dio. Per la psicanalisi dunque, l’esperienza mistica è solo un rifugio, un tentativo di placare il bisogno di protezione ricongiungendosi alla Madre, la fine della tensione, il raggiungimento della quiete, indicibile e incomprensibile alla logica ferrea della razionalità. Si tratterebbe di liberare le pulsioni dell’Es dalla censura del Super-Io, soddisfacendole pienamente. E’ il dottor Charcot con cui il giovane Freud intraprende la sua carriera medica che definisce le sante “inconfutabili isteriche”. Fuori da una lettura psicanalitica e al riparo da essa, il furore mistico di Teresa riesce ad incamminarsi lungo lo stretto sentiero dell’ortodossia religiosa, sfuggendo al sospetto di eresia, e rafforzando la Chiesa cattolica in quegli esiti sovrannaturali di cui il popolo dei credenti è sempre affamato. Riuscendo anche a testimoniare questa esperienza estatica nella scrittura delle sue opere, e concretizzando nella fondazione dei conventi l’ansia di Dio che la divora. E’ capace Teresa al contempo di descrivere i suoi rapimenti, di parteciparvi con il corpo soggetto a paralisi, contorcimenti, crisi epilettiche, attacchi di anoressia e bulimia, digiuni feroci, penitenze e flagellazioni, e al contempo gestire la delicata questione della rifondazione di un Ordine, che richiede tatto, diplomazia, ma anche tenacia, ostinazione e durezza. L’originalità della sua esistenza è riuscire a percorrere un’esperienza – quella estatica, assolutamente individuale – e poi a costruire una comunità che si apre al mondo: non senza avere sfidato e vinto i sospetti dell’Inquisizione di avere a che fare con una donnetta esaltata.Teresa prende l’abito il 2 novembre 1536. Trascorre trent’anni della sua vita nel convento dell’Incarnazione, un edificio in cui “d’inverno la neve cadeva sui breviari e d’estate la canicola arroventa i muri”. Legge molto, scrive molto, descrive nei dettagli le sue esperienze di elevazione”. Alcune volte perdo quasi del tutto le pulsazioni, le mani sono così rigide che non posso congiungerle…”. Il patimento del corpo permette all’anima di godere la gioia ineffabile dell’incontro con l’Altro. Patimenti del corpo, sensualità femminile, arte letteraria, distacco dal mondo. “Dio mi rende così estranea dal mondo che mi pare che nessuna creatura sulla terra possa darmi compagnia”. Si tratta di passare la notte in un cattivo albergo. Addirittura Teresa teme che occuparsi del prossimo sia una forma di vanità, una ricerca di onori. Teresa si mette in ascolto di Dio. “Un giorno, dopo la comunione, Sua Maestà mi ordinò con fermezza di fare quanto era possibile “. Dio chiede a Teresa di prodigarsi per una riforma del Carmelo che riporti l’ordine alla originaria Regola di povertà e clausura. Non sarà facile vincere le resistenze degli altri ordini, geuiti e domenicani, oltre che del Carmelo stesso. Troppi equilibri da bilanciare, quasi nessuna rendita da investire, la suscettibilità delle consorelle non deve essere urtata. Ma Teresa procede spedita, forte della presenza di Dio nel suo cuore, sa che qualunque difficoltà può essere superata. “Mi sembra di non essere io a parlare, a volere, a vivere, ma che vi sia in me qualcuno che mi guida e mi dà forza”. Il primo convento nasce nell’agosto del 1561, intitolato a San Giuseppe. Teresa progetta la casa, disegna i piani, dipinge le pareti.Un’inconfutabile isterica: nei vent’anni che gli restano da vivere fonderà altri conventi. La Regola è rigida, le monache devono vivere del loro lavoro e non possedere nulla. Povertà, clausura, nessuno svago che possa allontanare la mente dal pensiero di Dio. E’ il definitivo distacco dagli agi famigliari, dal ricordo del nonno materno che aveva fatto fortuna sul commercio del superfluo, dagli onori mondani, dalla vita legata allo svago effimero. Sa anche essere dura con le consorelle, non sopporta quelle che si lamentano, le malate, le storpie. Non accetta il lato sdolcinato della femminilità, arriva a dichiarare che vorrebbe che le sue figlie in nulla si mostrassero donne ma uomini forti. Le fondazioni di Teresa di Gesù puntellano la Spagna che la suora percorre in lungo e in largo: Medina del Campo, Valladolid, Toledo, Salamanca, Siviglia, Granada. Teresa si fermerà solo per morire. Muore il 4 ottobre 1582 ad Alba de Tormes. Per vent’anni più di millecinquecento persone hanno testimoniato nel processo di beatificazione prima e di canonizzazione poi. Nel 1970 Paolo VI la proclamerà prima donna ‘dottore della chiesa universale’ insieme a Caterina da Siena. La sovraccoperta del libro di Kristeva riporta la splendida immagine della “Transverberazione di santa Teresa” di Lorenzo Bernini che si trova a Roma nella chiesa di Santa Maria della Vittoria. Teresa ha gli occhi e la bocca socchiusi, il volto riverso all’indietro, lo sguardo vigile eppure distante, come perduto. La fede di Teresa ha conosciuto la gioia mistica, estatica, della beatitudine ineffabile che si eleva oltre l’umano dire. Sarà seppellita in una nicchia della cappella dei duchi di Alba sotto un cumulo di terra, calce e pietre. Nel ricevere l’estrema unzione ripete “In fin dei conti, Signore, sono figlia della Chiesa”. Teresa di Gesù lascia questo mondo per risiedere nell’Altro, eternamente. Estaticamente. Esteticamente e inconfutabilmente.

domenica 11 gennaio 2009

L'oratorio di Santa Sofia dei Tavernieri

di Gianluca Pipitò



L'oratorio di Santa Sofia dei Tavernieri si trova nel cuore della Palermo Antica ed esattamente in Corso Vittorio Emanuele all'altezza di Palazzo Vannuci, dietro la piazza della Vucciria.Proprio da Palazzo Vannucci, attraverso un arco detto appunto di Santa Sofia, si entra in una piazzetta che prende il nome dalla Chiesa in questione.
La storia dell'oratorio si svolge nel vecchio quartiere della Loggia che era il punto di riferimento delle "Nazioni Estere", dette nazioni provenivano da tutta Italia per aprire delle "Logge" per la vendita delle loro mercanzie ed erano situate vicino al Porto, inoltre, portavano con se le loro tradizioni ed i loro "Santi Protettori" a cui innalzavano Chiese ed Oratori.

La Maestranza che ha costruito la Chiesa di Santa Sofia (protettrice dei Milanesi insieme a San Carlo Borromeo) era quella dei Tavernieri ed era di origine Lombarda. Come tutte le Maestranze anche quella dei Tavernieri si riunisce, sin dal 1545, in "Consolato" da cui nasce la Confraternita, che ha comunque autonomia decisionale rispetto al Consolato. All'inizio la Confraternita non aveva una Chiesa propria ma era ospite in una Cappella presso la Chiesa del SS. Crocifisso all'Albergheria dove nel mese di ottobre festeggiava la Santa. Nel febbraio 1585, da Antonio Barone, i rettori della Confraternita ed i Consglieri del Consolato acquistarono alcuni magazzini ed iniziarono nel 1589 la costruzione dell'oratorio che venne completato nel 1590, successivamente nel 1606 la fabbrica venne ampliata acquistando, sempre da Antonio Barone, alcune case dietro la Chiesetta. Dopo l'arrivo di Garibaldi l'Oratorio passa nel Demanio dello Stato ed a tutt'oggi fa parte degli Immobili gestiti da Fondo Edifici per il Culto del Ministero dell'Interno. Secondo alcuni studiosi si pensa che l'Oratorio sia in rovina per via dei Bombardamenti dell'ultima guerra, ma da una ricerca approfondita non risulta MAI nominata quale chiesa pericolante, da puntellare o altro ed è strano se si tiene in considerazione il fatto che la Soprintendenza ai Beni Culturali ed altri Enti anche ecclesiastici hanno fatto un censimento certosino delle Chiese e dei monumenti che hanno subito qualsiasi danno. Comunque la Confraternita, oggi non più attiva, fino al 1939 usufruiva dell'Oratorio ed in questa Chiesa è nata l'unica confraternita al Mondo dedicata a Maria SS. Addolorata degli Invalidi e Mutilati di Guerra, di cui io sono il segretario. La struttura è in pessime condizioni, l'antico portone in legno è stato sostituito da uno in acciaio, le pareti sono pericolanti ed il bel portale è in pieno degrado, all'interno la cosa è ancora peggio, infatti, vi sono presenti dei gradevoli stucchi ma fortemente degradati, la gente, senza scrupolo ed ignorante, ha aperto delle finestre sui muri ed ha costruito un giardino all'interno della Chiesa e l'ex locale sacrestia è diventato un garage per auto. La cosa assurda è che il F.E.C. preferisce vendere questa testimonianza di armonia fra le nazioni estere e la Capitale della Sicilia (Milano e Palermo) per levarsi un peso e, magari, concedere un pezzo di storia della Lombardia e di Palermo a qualcuno che non sa fare altro che aprire PUB e chissà che cosa.Sò che c'è un SERIO interessamento della Soprintendenza BB.CC. per ricostruirla, ma a questo punto non è meglio restaurarla e darla in comodato d'uso alla Confraternita che garantisce la manutenzione ordinaria?


A Voi l'ardua sentenza.

mercoledì 24 dicembre 2008

LA SCORIA SIAMO NOI – FERMI TUTTI: "Mussolini morì suicida, in un dente celava una capsula di cianuro"

LA SCORIA SIAMO NOI – FERMI TUTTI: "Mussolini morì suicida, in un dente celava una capsula di cianuro" - Gliela consegnò Adolf Hitler in persona poche ore dopo l’attentato a Rastenburg – LA PROVA: ABITI privi dei fori delle pallottole…


Stefano Lorenzetto per "Il Giornale"

«Questa è una storia che nessuno vuole raccontare, ma che riguarda ciascuno di noi. È una storia che tocca tre generazioni: quella dei ventenni che fa finta di saperla, quella dei quarantenni che fa finta di ricordarla e quella dei sessantenni che fa finta di averla dimenticata». La storia che Alberto Bertotto racconta, «una ragionevole provocazione dedicata a chi ama il mistero della verità», non è facile da credere: Benito Mussolini si sarebbe suicidato masticando una capsula di cianuro.

Gliela consegnò Adolf Hitler in persona poche ore dopo l'attentato a Rastenburg. Nel pomeriggio di quel 20 luglio 1944 il capo del fascismo, intimidito dal Führer, era stato costretto a farsela impiantare seduta stante in un dente finto da un medico tedesco. Lo scetticismo aumenta quando si scopre che questa rivelazione fu fatta più di trent'anni fa dal fantasma del Duce a un sensitivo genovese, Athos Agostini, il quale il 10 luglio 2007 l'ha messa nero su bianco e depositata da un notaio.

Senonché Bertotto ha trovato molti elementi che la suffragano, a cominciare dalla testimonianza di Elena Curti, 86 anni, figlia naturale di Mussolini, che vive ad Acquapendente (Viterbo) e che il 27 aprile 1945 durante la fuga verso la Valtellina sedeva accanto al padre nell'autoblindo fermata dai partigiani sulle rive del lago di Como.

Alberto Bertotto, 63 anni, storico per passione, è un pediatra in pensione, originario di Biella, che ha messo nelle sue ricerche lo stesso rigore dispiegato per un trentennio nella cura dei piccoli pazienti in ospedale. Professore universitario di clinica pediatrica fino al 2002, prima a Pavia e poi a Perugia, dove abita tuttora, ha all'attivo oltre 250 pubblicazioni scientifiche. Ma di lui si parlerà molto per questo volume di 287 pagine, "La morte di Mussolini, una storia da riscrivere", che arriva adesso nelle librerie per i tipi della casa editrice Paoletti D'Isidori Capponi di Ascoli Piceno.

In precedenza aveva scritto "Mussolini estremo". E l'anno prossimo uscirà "L'odissea di Mussolini", in cui ricostruisce i 50 giorni del 1943 che andarono dalla caduta del fascismo alla liberazione del Duce sul Gran Sasso.

Nostalgico?
«Sono un agnostico della politica. Non vado neppure a votare».

Allora perché questo interesse per Mussolini?
«È un puro interesse intellettuale, da giallista. Nessuna persona provvista di buon senso può bersi la vulgata, per usare una definizione del professor Renzo De Felice, con cui il Pci voleva farci credere che Mussolini e la sua amante Claretta Petacci fossero stati uccisi alle 1

6.20 del 28 aprile 1945 davanti al cancello di villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, dal comunista Walter Audisio, alias colonnello Valerio, affiancato da Michele Moretti, detto Pietro, e Aldo Lampredi, detto Guido. Una cosa è ormai certa: il colonnello Valerio fucilò due cadaveri morti da un pezzo».

Come fa a dirlo?
«Non lo dico io. Lo sospettano, oltre a De Felice, storici come Franco Bandini, Luciano Garibaldi, Giorgio Pisanò, Alessandro Zanella, Sergio Bertoldi. Questo Audisio era un pover'uomo, anzi un poveraccio, che negli anni diede quattro diverse versioni dell'accaduto, adattandole in corso d'opera a mano a mano che venivano confutate».

I punti deboli quali sono?
«Audisio dice nei suoi libri che fece sedere Mussolini e la Petacci su una panca di pietra all'ingresso di villa Belmonte: quella panca non esiste. Audisio dice che il Duce, prima dell'esecuzione, biascicò tremante: "Ma, ma... signor colonnello...". Come poteva il condannato conoscere il grado da partigiano del suo carnefice? Audisio dice: "Poi fu la volta della Petacci, che cadde di quarto a terra sull'erba umida".
Davanti al cancello c'era solo asfalto. Lampredi nel 1966 dichiara all'Unità che Mussolini si aprì il cappotto e gridò: "Sparami al cuore!". Moretti nel 1995 racconta al giornalista Giorgio Cavalleri che le ultime parole del Duce furono: "Viva l'Italia!"».


Chi decise l'esecuzione?
«L'immediata fucilazione fu deliberata dal Cnlai, Comitato di liberazione Alta Italia, cioè da Luigi Longo per il Pci, da Sandro Pertini per il Psi e da Leo Valiani per il Partito d'azione. Del resto lo stesso Palmiro Togliatti aveva dichiarato alla radio che non era necessario alcun processo, bastava la sola identificazione. Furono interpellati i partigiani più carismatici, ma tutti rifiutarono l'ingrato compito: Italo Pietra, che nel dopoguerra diventerà direttore del Giorno, era uno di loro.
La scelta di far fuori Mussolini, l'amante e gli altri gerarchi fascisti alla fine cadde su Audisio, che come rappresentante della polizia militare nel Cnlai non poteva sottrarsi all'incarico».

Stando alla «vulgata», come andarono i fatti?
«Mussolini è catturato a Dongo alle 15.30 del 27 aprile dalla 52ª brigata Garibaldi. Il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle, detto Pedro, un monarchico, d'accordo col generale Raffaele Cadorna, figlio di tanto padre e comandante dei Volontari della libertà, vorrebbe consegnarlo agli Alleati. Ma nella notte arriva il cinico contrordine dello stesso Cadorna, che s'è piegato alla sentenza dei comunisti: "Fate fuori lui e la sua ganza".

Il Duce e la Petacci vengono portati a Bonzanigo, nel cascinale dei contadini Giacomo e Lia De Maria. Due partigiani restano di guardia. Alle 14 del 28 aprile da Milano arriva Audisio, che alle 16.20 procede all'esecuzione in assenza di testimoni.

Prima incongruenza: perché gli altri 15 gerarchi furono invece allineati sul lungolago di Dongo e fucilati alla schiena davanti alla folla? Il dittatore non meritava forse più di loro il pubblico ludibrio? Audisio dipinge quella dei De Maria come "una casetta incastonata tra i monti". Assurdo: era la più grande costruzione di Bonzanigo, ben visibile da lontano. E confonde le strade in salita con quelle in discesa. Conclusione: lì non c'è mai stato e s'è pure fatto descrivere male i luoghi».

Lei che cosa ipotizza?
«Sono partito dagli abiti che il Duce indossava al momento della fucilazione: camicia nera, divisa da caporale d'onore della Milizia senza gradi, pastrano grigioverde. Così lo si vede anche nel film "Mussolini ultimo atto" di Carlo Lizzani. Il regista si servì della consulenza di partigiani comunisti, quindi devo credergli. Ebbene, il cadavere scaricato a Milano, a piazzale Loreto, aveva invece un giaccone di foggia borghese con maniche raglan. Mancava la giacca della Milizia: perché? Non solo: pantaloni, camicia e giaccone erano intatti, privi dei fori delle pallottole, a differenza della sottostante maglia della salute e dei mutandoni di flanella, insanguinati e bucati. Un controsenso».


Da che cosa ha dedotto l'assenza di fori?

«Dalle foto eseguite a piazzale Loreto e all'obitorio. Il professor Giovanni Pierucci, ordinario di medicina legale a Pavia, le ha analizzate con la tecnica digitalizzata dell'arricchimento dell'immagine. Questo porta a concludere che Mussolini sia stato ucciso nella casa dei De Maria mentre era in déshabillé, con colpi sparati a non più di 30-40 centimetri di distanza. Il che avvalora la testimonianza di Dorina Mazzola».


Chi è Dorina Mazzola?
«Una signora, oggi defunta, che abitava a 300 metri dalla cascina. All'epoca dei fatti aveva 19 anni. A Giorgio Pisanò, che la scovò nel 1996, raccontò che la mattina del 28 aprile sentì urlare Lia De Maria: "Non si fanno queste cose in casa mia!". Udì due spari. Poi vide un uomo calvo trascinato da due partigiani che lo afferravano per le ascelle e una donna che cercava di trattenerlo per i piedi, piangendo: "Che cosa vi hanno fatto, come vi hanno ridotto...".

Prima d'essere freddata a sua volta, la poveretta riuscì a strappargli lo stivale destro. La Mazzola non poteva sapere che si trattava di Mussolini e della Petacci. Ne deduco che il Duce venne ucciso in maglietta e mutandoni. A due-tre ore da una morte violenta subentra la rigidità catalettica, una "lignea statuarietà" scrisse il dottor Aldo Alessiani, medico legale perito del tribunale di Roma, insomma la salma diventa dura come il baccalà e rimane tale per 24-36 ore. Ecco perché fu rivestita con un giaccone dalle maniche raglan, molto ampie, che poteva essere facilmente maneggiato anche da chi non aveva familiarità con la vestizione di cadaveri. La giacca della divisa con le maniche a tubo era più difficile da far indossare».

Diamo invece per buona la versione di Audisio.
«Se Mussolini fosse stato fucilato alle 16.20 del 28 aprile, fino al tardo pomeriggio del giorno seguente la salma sarebbe apparsa irrigidita. Invece Alessiani notò che era rilasciata e ne arguì che il dittatore doveva essere morto intorno alle 5.30. E si soffermò in particolare sul "lubrico braccetto": alle 14.30 del 29 aprile fu scattata all'obitorio una fotografia in cui i partigiani intrecciarono il braccio sinistro della Petacci col braccio destro del Duce, come se i due cadaveri stessero andando a spasso. Le teste delle vittime erano ciondolanti, tanto da dover essere sorrette. Una turpe messinscena incompatibile col rigor mortis».


E il sensitivo Athos Agostini che cosa c'entra in tutto questo?
«Innanzitutto non si tratta di un medium, ma di uno stimato commerciante. Non evoca gli spiriti: vive queste esperienze contro la sua volontà. Mi ha cercato dopo aver letto un mio articolo sul mensile "Storia del Novecento". Non aveva mai raccontato a nessuno quello che gli era capitato. Una notte di settembre del 1975, o del1976, mentre con la moglie e la figlia era in vacanza all'hotel Du Lac di Varenna, sul lago di Como, gli apparve in camera un uomo con le sembianze di Mussolini.

Questa figura evanescente gli raccontò che cosa accadde all'alba del 28 aprile 1945. Claretta, mestruata, si allontanò per andare in una rustica toilette posta nel cortile di casa De Maria. Si tolse le mutandine sporche di sangue, il che giustificherebbe la mancanza dell'indumento intimo sulla salma oltraggiata a piazzale Loreto. Il Duce approfittò di quel frangente per estrarre dal dente la capsula di cianuro e romperla fra i molari, ma il veleno non sortì all'istante l'effetto sperato. Al suo rientro incamera, vedendo Mussolini con la bava alla bocca e convulsivante, esiti tipici dell'acido cianidrico, Claretta si mise a urlare. Sopraggiunse uno dei partigiani di guardia, Giuseppe Frangi, detto Lino, che sparò al moribondo».

Ammetterà che gli spiriti non possono entrare nella storiografia.
«Lo ammetto eccome. Ma il signor Agostini sostiene anche d'aver visto nel 1999, o nel 2000 o nel 2001, su Raitre, a tarda sera, un documentario in cui un medico statunitense parlava delle tracce di cianuro trovate nel cervello del Duce. Oggi non ricorda il nome del programma. A quel tempo Agostini scrisse alla Rai per ottenere la videocassetta. Non gli fu consegnata. Allora diede incarico all'avvocato Riccardo Dellepiane di ripetere la richiesta: nessun esito.

Poiché l'unica copia di quella lettera fu poi consegnata dal legale al suo cliente, che l'ha smarrita durante un trasloco, sono stato autorizzato da entrambi a recuperare dalla Rai l'originale, in modo da risalire al titolo della trasmissione. Francesca Cadin del servizio Teche ha risposto che le missive dei privati non vengono protocollate e finiscono nell'archivio cartaceo di Pomezia: 600 metri quadrati di scartoffie. Impossibile ritrovarla».

Nel 1999 il professor Pier Gildo Bianchi, l'anatomopatologo che esaminò il cervello di Mussolini, mi disse che non ci trovò niente di strano: «Era il normalissimo encefalo di un sessantenne». E i relativi vetrini molti anni dopo furono gettati per sbaglio nella spazzatura da un necroforo dell'obitorio.
«Sì, ma è anche vero che il dottor Calvin Drayer, maggiore medico e consulente psichiatra, chiese a nome del direttore generale di sanità dell'esercito Usa un campione di tessuto cerebrale del Duce. Due pezzi di cervello vennero spediti a Washington: uno al dottor Winfred Overholser, direttore dell'ospedale psichiatrico Santa Elisabetta, e uno al dottor Webb Haymaker dell'Army institute of pathology, oggi Walter Reed Army medical center.

La relazione ufficiale del primo esame non è mai stata resa nota; quella del secondo venne diffusa solamente nel 1966 per precisare che non c'erano tracce di malattie che spiegassero "il perché Mussolini si comportò in un certo modo dittatoriale", cioè tracce di sifilide, era questo che sospettavano gli americani. Ho consultato entrambi gli istituti: il primo mi ha replicato che non furono trovate prove di intossicazione acuta da acido cianidrico; il secondo ha negato che nei propri archivi vi siano referti di indagini autoptiche sul cervello del Duce. Curioso no?».

Perché i De Maria, a distanza di anni, non avrebbero dovuto raccontare la verità su ciò che avvenne nella loro casa di Bonzanigo?
«È la stessa domanda che ho posto due mesi fa alla vedova di Giovanni De Maria, l'ultimo dei due figli della coppia. Mi ha risposto: "Guardi, professore, il mio Giovanni in tanti anni di matrimonio non ha detto nulla neppure a me". Come se fosse minacciato».

Lei ha parlato anche con Elena Curti, figlia naturale del Duce.
«Un'anziana lucidissima. Sua madre, Angela Cucciati Curti, la ebbe da Mussolini dopo la separazione dal marito. Durante la Repubblica sociale, Elena era stata messa dal padre a lavorare nella segreteria di Alessandro Pavolini. Mi ha detto: "La mattina del 28 fui portata nella caserma dei carabinieri a Dongo. Entrò il partigiano Osvaldo Gobbetti, che mi apostrofò in questo modo: "Ti abbiamo ammazzato il tuo Duce. Aveva cercato di suicidarsi, ma noi l'abbiamo trascinato fuori e fucilato".

La Curti mi ha anche riferito che suo padre era terrorizzato dall'idea di finire vivo nelle mani degli angloamericani. Temeva che lo esponessero dentro una gabbia a Madison Square, come un animale. Questo dimostra che fu padrone della sua vita fino in fondo. Una versione che, dal punto di vista della destra, attesterebbe la grandezza di Mussolini».

Grandezza? A me il suicidio pare un atto di codardia.
«Concordo. Fu un gesto di egoismo che va a discredito di Mussolini. In questo modo sapeva di condannare a morte la Petacci. Mai e poi mai i partigiani avrebbero lasciato viva la testimone di un evento tanto scomodo».

giovedì 18 dicembre 2008

LA LEGISLAZIONE SOCIALE DEL FASCISMO






di Michelangelo Ingrassia






Di ritorno in patria da un viaggio in Europa l'intellettuale sovietico I. E. Babel', in una conferenza tenuta a Mosca alla presenza di un gruppo di scrittori russi, osservava che "in Italia c'è un fascismo estremamente interessante. Esso è degno d'attenzione", ed aggiungeva: "L'aristocrazia italiana si è schierata contro Mussolini (...) credono che Mussolini porterà tranquillamente la nazione italiana ad una particolare forma di comunismo senza dover superare le difficoltà e subire gli scossoni come è capitato a noi". E' un traccia che suggerisce, a chi vuole addentrarsi nelle terre poco frequentate di quel fascismo immenso e rosso esplorate finora solo dal coraggioso Giano Accame, da Giuseppe Parlato e da pochi altri pionieri, due piste da seguire: i rapporti tra l'Italia fascista e la Russia comunista, e la politica sociale del fascismo. Ci addentreremo un'altra volta nei meandri del dialogo a distanza fra l'Italia di Mussolini e la Russia di Stalin, fermiamoci per adesso a visitare il campo della legislazione sociale fascista.
Inutile dire che, in proposito, la storiografia ufficiale si è concentrata esclusivamente (tranne poche lodevoli eccezioni) sulla Carta del Lavoro ignorando ingiustamente tutto il resto. Promulgata nell'aprile 1927 come base dell'ordinamento corporativo dello Stato fascista e contenente delle Dichiarazioni di principi generali in materia di organizzazione corporativa, di uffici di collocamento, e di previdenza, assistenza, educazione ed istruzione, con quella Carta il fascismo si proponeva di portare il lavoro al centro dello Stato. Gran parte degli storici, però, hanno frettolosamente processato e condannato le intenzioni del fascismo imputando al Regime di avere aspettato addirittura il 1942 per tradurre in norme legislative, nell'appena emanato Codice Civile, quei principi morali e politici fissati dalla Carta nel 1927. Questo processo sommario alle intenzioni ha scaraventato nelle foibe della storia tutta la politica sociale del fascismo ed ha oscurato quelle affinità elettive tra la Carta del Lavoro e la Costituzione che lasciano intravedere una contiguità teorica tra la cultura sociale dell'Italia fascista e la cultura sociale dell'Italia repubblicana sul terreno del lavoro: si pensi, per esempio, al "dovere sociale" del lavoro contenuto nella Dichiarazione II e al "dovere di svolgere un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società" richiamato dall'art. 4 della Costituzione; ed ancora alla enunciazione della III Dichiarazione che afferma che "l'organizzazione sindacale o professionale è libera", simile alla proposizione iniziale dell'art. 39 della Costituzione.
Ma la storia della legislazione sociale fascista non si esaurisce con la Carta del Lavoro. Essa comincia ben prima del 1927 e, in parte, prosegue oltre la fine del fascismo.
Già nel 1923 con il Regio Decreto-Legge n. 692, per esempio, si limitò ad otto ore al giorno (o 48 settimanali) la durata massima della giornata di lavoro di operai ed impiegati; del resto Mussolini nel 1921, pronunciando alla Camera il suo primo discorso da deputato, aveva detto rivolto ai socialisti: "quando voi presenterete il disegno di legge delle otto ore di lavoro, noi voteremo a favore (...) e voteremo anzi a favore di tutte le misure e dei provvedimenti che siano destinati a perfezionare la nostra legislazione sociale".
Ancora il 21 dicembre 1923 venne siglato a Palazzo Chigi, alla presenza del duce, un accordo fra i rappresentanti del sindacalismo fascista e quelli delle categorie industriali che avrebbe dovuto inaugurare una nuova fase di collaborazione sociale fra capitale e lavoro. Patto che però le categorie padronali più volte infransero tanto che, il 23 gennaio 1925, il Gran Consiglio del Fascismo denunciò con una mozione il mancato rispetto dell'accordo da parte di alcuni gruppi di datori di lavoro. In particolare vennero disattesi dagli industriali gli impegni presi circa l'aumento dei salari che, anzi, diminuirono. Scese in campo anche il sindacato fascista con una prima ondata di scioperi nell'estate del 1924 e con una seconda, durissima, nel 1925: particolarmente significativo lo sciopero dei metallurgici di Brescia condotto nel mese di marzo da Augusto Turati, uno degli uomini migliori del primo fascismo e segretario del partito dal 1926 al 1930.
Risolta la questione salariale un'altro forte contrasto si ebbe tra datori di lavoro e sindacati fascisti alla fine del 1925. Il Regime si apprestava ad istituire la Magistratura del Lavoro contro la volontà degli industriali. Questi, sostenuti dal Guardasigilli Alfredo Rocco (ex nazionalista), proponevano di sottoporre al nuovo istituto i soli ceti rurali. Ma Mussolini, pressato dal Sindacato, si oppose e gli industriali dovettero cedere.
Si arrivò così alla legge 3 aprile 1926 n. 563 sulla Disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro. Questa legge, oltre a costituire la Magistratura del lavoro, resta fondamentale su due punti: sanciva il divieto di sciopero e di serrata, estendeva a tutti i rapporti di lavoro i contratti collettivi; di questi due punti "il primo era a vantaggio degli industriali - scrive Giampiero Carocci - il secondo a vantaggio degli operai". Con il secondo punto, infatti, veniva finalmente risolto il problema dell'efficacia generale dei contratti: d'ora in poi i contratti collettivi stipulati fra le associazioni datoriali ed i sindacati avrebbero avuto efficacia generale, erga omnes; i contratti collettivi, insomma, mantenevano la veste formale dei contratti ma avevano la portata di una legge, valida per tutti, che prevaleva dunque sulle clausole difformi dei contratti individuali, a meno che questi ultimi non contenessero disposizioni più favorevoli ai lavoratori. Scrive in proposito il giurista Pietro Rescigno che il risultato pratico raggiunto dal regime fascista, vale a dire la generale efficacia dei contratti collettivi, "appariva ancora, negli anni in cui fu scritta la Carta costituzionale, un risultato di notevole valore pratico per i lavoratori"; ed infatti il principio dell'efficacia generale dei contratti collettivi sancito dall'Italia fascista venne fatto proprio dall'Italia repubblicana con la formulazione dell'art. 39 della Costituzione che all'ultimo comma prevede che i sindacati "possono ... stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce".
Alla legislazione fascista si deve anche la costituzione, nel 1933, dell'Inps (ed intanto era già stata istituita, con l'Inpgi, la previdenza per i giornalisti) e di altri organismi come l'Opera Nazionale Dopolavoro e l'Opera Nazionale Maternità ed Infanzia. Ma va ricordata anche la Legge 22 febbraio 1934 n. 370 sul riposo domenicale e settimanale, la Legge 26 aprile 1934 n. 653 sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, la Legge 23 dicembre 1937 n. 2387 sul congedo straordinario agli impiegati per contrarre matrimonio, la Legge 10 giugno 1940 n. 653 (attenzione alla data: è quella dell'entrata in guerra dell'Italia) contenente norme sulla conservazione del posto per i lavoratori chiamati alle armi, il Contratto Collettivo Nazionale per il regolamento della previdenza a favore dei viaggiatori e piazzisti dipendenti da aziende industriali siglato il 13 gennaio 1941. Nè vanno dimenticate tutte quelle norme del Codice Civile del 1942, tuttora valide, che sulla scia della Carta del Lavoro disciplinano il compenso per il lavoro notturno e straordinario, il periodo di riposo, l'indennità di anzianità, il cottimo e così via.
Non ci si deve meravigliare se parte della legislazione sociale fascista sia diventata patrimonio dell'Italia repubblicana, del resto la politica sociale ed economica del fascismo stimolò un certo interesse nel mondo antifascista, basti pensare a Pietro Nenni che nel 1933 scriveva: "Tra il capitalismo allo stato puro e il socialismo abbiamo tutta una serie di esperienze intermedie. Abbiamo il bolscevismo, di fronte al quale la nostra opposizione sul piano politico deve restare intera ... e poi abbiamo il New Deal che può sfociare tanto nel capitalismo di stato che nel fascismo, ma che applica sin da ora metodi che sono mutuati dalla mentalità del socialismo ... Tanto in Russia quanto in Germania e in Italia noi assistiamo ad esperienze di diversa portata con possibilità enormi di azione". Ed ancora nel 1966 Gino Giugni, il padre dello Statuto dei Lavoratori, nella sua prefazione alla Storia del Movimento Sindacale in Italia di Daniel Horowitz, osservava a proposito del periodo corporativo che "l'esperienza del ventennio ha avuto riflessi sensibili sul piano delle strutture istituzionali, ed ha influito non poco sulla prassi di contrattazione, anche successiva al fascismo".
C'è, insomma, una terra di mezzo sociale condivisa da fascismo ed antifascismo e che in qualche modo si è salvata dalle distruzioni della seconda guerra mondiale. Bisogna trovare il coraggio di liberarla dalle macerie delle devastazioni dei pregiudizi ideologici ora che la globalizzazione sta accendendo una nuova dialettica tra capitale e lavoro ridisegnando la geografia politica nazionale ed europea. Lo storico Giampiero Carocci ha sottolineato che "uno dei caratteri peculiari del fascismo rispetto agli altri regimi reazionari fu quello di avere una sua componente sindacalista ed una sua base di massa". Tutto questo non può restare ancora nella penombra, nè può essere rinnegato. La legislazione sociale fascista era animata dallo spirito di collaborazione fra capitale e lavoro, una collaborazione che rispondeva alla doppia esigenza di immettere le masse nello Stato e di trasformare il lavoro da oggetto a soggetto dell'economia. Erano, questi, problemi già affrontati dal pensiero politico antigiolittiano e che il fascismo cercò di risolvere fermandosi però a metà del guado. Oggi possiamo dire che il problema della democrazia politica è stato definitivamente risolto, e su questo punto l'esperienza storica del fascismo-regime è stata negativa e non ha più nulla da dire. Resta però insoluto, nel nostro tempo, il problema della democrazia economica: qui forse il fascismo-movimento, come fenomeno storico, ha ancora possibilità enormi di azioni da offrire se solo si abbattesse il muro delle pregiudiziali ideologiche. Una forma di collaborazione fra capitale e lavoro diretta al raggiungimento della democrazia economica risiede nel principio, teorizzato dal fascismo, della rappresentanza del lavoro affidata ad una delle due camere del Parlamento. E' vero che il regime non ne fece nulla, ma ciò non intacca la validità attuale di quel principio perchè di fronte alla globalizzazione la dialettica fra capitale e lavoro non può restare un fatto esclusivamente economico ma deve trovare un luogo di confronto anche politico.
Un'altro principio che potrebbe agevolare la collaborazione fra capitale e lavoro è quello della cogestione, che pure il fascismo del 1919 individuò e che il governo Giolitti del 1921 tentò inutilmente di progettare. A differenza di ciò che è accaduto in Francia ed in Germania nel secondo dopoguerra, la cogestione è rimasta estranea al nostro sistema anche se il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio, nel 1947, ne elogiava gli aspetti positivi e dinamici. Due appositi disegni di legge predisposti nel 1946 fallirono per l'opposizione degli ambienti industriali. Intanto nella Costituzione veniva posta la norma che "riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende"; è il famoso art. 46 disatteso perchè il padronato ha sempre preferito gestire direttamente le aziende. Ma l'art. 46 ha un precedente nel Decreto 12 febbraio 1944 n. 375 emanato dal governo della Repubblica Sociale Italiana, con il quale si dichiaravano socializzate le imprese di grande dimensione. Scrive Rescigno che il decreto fascista sulla cogestione rimane, "mancati gli interventi legislativi nella storia della legislazione italiana, il solo documento che abbia superato lo stadio di progetto". Ricompare, così, all'orizzonte quella terra di mezzo sociale popolata da elementi sociali fascisti e da elementi sociali antifascisti, nella quale convivono e si contaminano aspetti della legislazione sociale dell'Italia fascista ed aspetti della legislazione sociale dell'Italia repubblicana. La storia ci sprona a guardare finalmente avanti verso quell'orizzonte, lasciando ad essa le colpe gli errori e le incomprensioni del passato. Se la sfida del nostro tempo è quella di portare il lavoro al centro della globalizzazione, allora è necessario mettere in forma tutte le energie latenti e sopite della nostra storia sociale e guardare sotto una luce nuova le legislazioni sociali del passato, a cominciare da quella firmata da Mussolini, nato socialista e vissuto fascista in quella terra di mezzo sociale alla ricerca di una sintesi difficile ma non impossibile.


PUBBLICATO SU: STORIA DEL NOVECENTO, N. 28, MAGGIO 2003

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