di Michelangelo Ingrassia
“La storia italiana non ha episodi così atroci come quello di piazzale Loreto. Nemmeno le tribù antropofaghe infieriscono sui morti. Bisogna dire che quei linciatori non rappresentavano l’avvenire, ma un ritorno all’uomo ancestrale (che forse, era moralmente più sano dell’uomo civilizzato)”.
Con queste parole Benito Mussolini - il cui corpo proprio in quel piazzale sarebbe stato vittima di un ancor più atroce oltraggio - commentava sul Popolo d’Italia del 26 giugno 1920 uno dei tanti fatti di sangue di quella guerra civile del 1919-1921 dimenticata: durante gli scontri seguiti ad uno sciopero di ferrovieri, i socialisti massimalisti avevano ucciso un carabiniere ed avevano poi lungamente infierito sul suo cadavere; lì, in quello stesso piazzale milanese dove nel 1944 sarebbero stati trucidati quindici italiani come rappresaglia per l’uccisione partigiana di due soldati tedeschi, e dove nel 1945 “la carogna del Duce dei malfattori - come scrisse velenosamente il comunista Pajetta - sarebbe stata esposta alla gogna”.
Per una di quelle incredibili coincidenze che a volte la Storia vuole e prepara - forse per ricondurre gli uomini sulla via del rispetto ad essa, ai suoi cicli, al suo eterno ritorno - piazzale Loreto si è macchiata del sangue delle due guerre civili italiane seguite alle due guerre mondiali: quella del 1943-45 e quella del 1919-1921. Entrambe sono state maltrattate da una vulgata ideologica che - parafrasando Rosario Romeo - ha contrapposto alla storia accaduta una storia alternativa; in entrambi i casi si è voluto evitare di mettere sullo stesso piano comunisti e fascisti; da qui falsificazioni, deformazioni e mistificazioni che hanno manipolato la prospettiva politica di quell’epoca compresa tra le due guerre civili. Se quella degli anni ‘40 è stata a lungo negata, la prima guerra civile italiana è stata rimossa, come dimostra una bibliografia povera e datata. In questo modo le responsabilità e le colpe di quanto accadde allora in Italia sono state addossate solo al fascismo. E’ così che si è tolto di mezzo il ‘pericolo rosso’, si è cancellata la violenza comunista, si sono occultate le vittime fasciste e sono rimasti in campo solo il ‘pericolo nero’ e la violenza squadrista. Tutto questo è servito per alterare il giudizio storico sulle origini del fascismo. La storiografia marxista, infatti, sostiene che il movimento fascista fu sin dalla sua nascita una gratuita e prepotente esplosione di violenza. Lo sviluppo del fascismo nella vita politica nazionale è stato, in realtà, ben più problematico e basta rifarsi al solito De Felice per prenderne atto. Ciò che sfugge dalla versione comunista dei fatti è che il fascismo nacque “come reazione a un clima di violenze - scrive Adriano Romualdi - instaurato dalle sinistre e tollerato da governi democratici fiacchi e imbelli”. Fermiamoci su questo ‘clima di violenze’ ed inquadriamolo storicamente nel contesto politico del tempo in cui sorse il movimento fascista. Sono, quelli del 1919-21, gli anni del ‘biennio rosso’; in Italia, come nel resto d’Europa, il massimalismo socialista - dal quale nascerà nel 1921 il Pci - vuole “fare come in Russia”. Serrati e più ancora Bordiga e Gramsci, vogliono “sovietizzare l’Italia”. Il neonato Partito Popolare di Sturzo, la componente socialista riformista di Turati e della Cgl, l’universo liberaldemocratico giolittiano, salandrino e nittiano mostrano tutta la loro debolezza ed incapacità a realizzare una ‘grande politica’ che possa disinnescare il massimalismo. Che peraltro non sa uscire dal velleitarismo di una rivoluzione proclamata a parole e non sa intercettare i nuovi sentimenti che animano la massa tornata dalle trincee. Il biennio rosso anche in Italia genererà la ‘grande paura’ di una rivoluzione come quella del 1917. Da qui proviene quel ‘clima di violenze’ che sfocia in quella che Francesco Coppellotti ha definito “l’unica guerra civile combattuta dagli italiani non per procura” e che terminerà con “la rivoluzione nazionale del fascismo fondata sull’alleanza Mussolini Gentile”. Ecco perché va ricordato che non ci furono solo le bastonature di deputati antifascisti e le spedizioni punitive contro Camere del Lavoro, sedi di giornali o di partito e così via. Dalla ricostruzione storica di quel periodo drammatico non devono sfuggire le violenze massimaliste ed il terrore rosso, il conflitto fra ‘Guardie Rosse’ e ‘Squadre d’Azione’, fra ‘Arditi del Popolo’ e ‘Camicie Nere’, con morti e feriti e stragi da entrambe le parti e tra le forze dell’ordine; soprattutto non devono sfuggire le responsabilità prime. Non si tiene in conto, ad esempio, che ancor prima dello squadrismo agrario nelle campagne padane dilagò l’estremismo massimalista. “Nel 1919-20 - ha documentato De Felice - il potere dei ‘leghisti’ fu pressoché assoluto; i proprietari, le amministrazioni locali, lo stesso Stato erano impotenti”. I massimalisti erano contrari ad ogni riforma agraria che prevedesse la costituzione di tante piccole proprietà coltivatrici e organizzarono la lotta in modo assolutamente violento. Le Camere del Lavoro detenevano il monopolio assoluto della mano d’opera e quei braccianti che non si adeguavano alle direttive ‘rosse’ o non aderivano alle organizzazioni di sinistra venivano boicottati, intorno a loro in paese si creava il vuoto assoluto. “In periodo di sciopero gli incendi dei fienili, la distruzione dei raccolti, l’uccisione dei capi di bestiame, le violenze ai proprietari e ai contadini coltivatori - scrive Luigi Preti - diventavano frequentissimi”. Una situazione che si ripercosse contro lo stesso proletariato agricolo che, nel nome della parola d’ordine mussoliniana “la terra a chi la lavora” passò con i fascisti. E’ nel 1921, infatti, che dilaga lo squadrismo fascista nella pianura padana e la reazione è violenta tanto quanto lo era stata l’aggressione massimalista. In quell’anno le organizzazioni sindacali bracciantili fasciste si affollano di lavoratori agricoli delusi dall’inconcludente estremismo dei socialisti massimalisti e dall’attendismo sterile dei socialisti riformisti. Dalle campagne alle città, alle fabbriche, si ripetette lo stesso schema: terrore rosso e successiva reazione nera; violenza chiamò violenza, sangue chiamò sangue; fu guerra civile, voluta e scatenata dai leninisti di casa nostra, ed è arrivato il momento di prenderne atto e di ricordare accanto alle vittime rosse anche quelle vittime nere ingiustamente ignorate dai manuali di storia delle nostre scuole. Come lo studente Pierino Dal Piano, figlio di una portinaia, assassinato a Torino il 2 dicembre 1919 dai dimostranti di sinistra perché si era rifiutato di gridare “viva la Russia” ed urlò “viva l’Italia!”. Come Mario Sonzini, lavoratore della Fiat, sequestrato a Torino il 22 settembre 1920 da un “tribunale del popolo” che lo condannò ad essere gettato vivo negli altiforni perché nazionalista; poiché questi erano spenti il Sonzini venne giustiziato con un colpo di pistola. Ed allo stesso modo morì l’operaio Costantino Scimula, ventenne. E tralasciamo la strage del Teatro Diana a Milano; l’assalto rosso alle carceri di Mantova durante il quale morì la moglie di un guardiano; la sparatoria anarchica del 26 giugno 1920 contro un treno nei pressi di Ancona che costò la vita a sei passeggeri; i fatti del novembre 1920 a Bologna dove le Guardie Rosse lanciarono bombe a mano sulla folla assiepata davanti al Municipio provocando nove morti mentre nell’aula comunale, dai banchi di Sinistra, si aprì il fuoco contro i consiglieri della Destra ed il nazionalista Pietro Giordani cadeva ucciso, tutto perché i fascisti volevano togliere la bandiera rossa issata sul pennone del palazzo comunale. Sono fatti tra centinaia di episodi simili che lasciano capire quale fu lo stato d’animo ed il clima politico che si creò in Italia durante il biennio rosso. E’ dopo questi fatti - non prima - che si scatena la violenza fascista. Certo, in modo altrettanto estremo e più organizzato. Ma va ricordato che il movimento fascista che nel 1920 contava circa ventimila iscritti, passò a duecentomila nel 1921; e va tenuto in considerazione che esso non si sarebbe sviluppato fino ad affermarsi se non fosse stato sostenuto ed appoggiato dal consenso dell’opinione pubblica stanca delle inutili violenze rosse. “Il fascismo creò la dittatura - nota Adriano Romualdi - ma la maggior parte di coloro contro cui si esercitava la sua violenza volevano anch’essi una dittatura, una dittatura di tipo sovietico”. Era stato il socialismo massimalista a scatenare la violenza con il mito dell’Italia ‘sovietica’, i fascisti contrapposero il mito dell’Italia ‘Romana’ e fu guerra civile. Non si deve tuttavia commettere l’errore di credere che la coscienza di alcuni capi politici non sia stata profondamente turbata e scossa da quel che stava accadendo; fra tanta insensibilità ci fu pure chi visse in modo drammatico gli eventi. Qualche mese prima della marcia su Roma, Nenni e Mussolini ebbero una lunga conversazione a Cannes, lontani dalle contingenze politiche che li avevano portati su fronti contrapposti ma che non avevano incrinato l’antica amicizia. Nenni accusò il suo antico compagno di essere diventato strumento degli interessi antiproletari, Mussolini rispose con un diniego e ricordò che “quando ho parlato di pace mi si è riso in faccia; ho dovuto allora accettare la guerra”. Nenni replicò dicendogli: “dimentichi che sei stato il capo del Partito Socialista e che probabilmente gli operai sui quali s’avventano le tue camicie nere erano divenuti socialisti al tuo appello”. Al che Mussolini ribattè: “so che i morti pesano. Spesso penso al mio passato con profonda malinconia. Ma non ci sono soltanto le poche decine di morti della guerra civile. Ci sono le centinaia di migliaia di morti della guerra. Anche questi, bisogna difenderli”. Nelle parole di questa conversazione vi è tutta la complessità delle origini del fascismo e di quella guerra civile dimenticata. Il vero nodo da sciogliere nella storia italiana non è negli eventi del 1943-45, ma in quelli del 1919-21.
Con queste parole Benito Mussolini - il cui corpo proprio in quel piazzale sarebbe stato vittima di un ancor più atroce oltraggio - commentava sul Popolo d’Italia del 26 giugno 1920 uno dei tanti fatti di sangue di quella guerra civile del 1919-1921 dimenticata: durante gli scontri seguiti ad uno sciopero di ferrovieri, i socialisti massimalisti avevano ucciso un carabiniere ed avevano poi lungamente infierito sul suo cadavere; lì, in quello stesso piazzale milanese dove nel 1944 sarebbero stati trucidati quindici italiani come rappresaglia per l’uccisione partigiana di due soldati tedeschi, e dove nel 1945 “la carogna del Duce dei malfattori - come scrisse velenosamente il comunista Pajetta - sarebbe stata esposta alla gogna”.
Per una di quelle incredibili coincidenze che a volte la Storia vuole e prepara - forse per ricondurre gli uomini sulla via del rispetto ad essa, ai suoi cicli, al suo eterno ritorno - piazzale Loreto si è macchiata del sangue delle due guerre civili italiane seguite alle due guerre mondiali: quella del 1943-45 e quella del 1919-1921. Entrambe sono state maltrattate da una vulgata ideologica che - parafrasando Rosario Romeo - ha contrapposto alla storia accaduta una storia alternativa; in entrambi i casi si è voluto evitare di mettere sullo stesso piano comunisti e fascisti; da qui falsificazioni, deformazioni e mistificazioni che hanno manipolato la prospettiva politica di quell’epoca compresa tra le due guerre civili. Se quella degli anni ‘40 è stata a lungo negata, la prima guerra civile italiana è stata rimossa, come dimostra una bibliografia povera e datata. In questo modo le responsabilità e le colpe di quanto accadde allora in Italia sono state addossate solo al fascismo. E’ così che si è tolto di mezzo il ‘pericolo rosso’, si è cancellata la violenza comunista, si sono occultate le vittime fasciste e sono rimasti in campo solo il ‘pericolo nero’ e la violenza squadrista. Tutto questo è servito per alterare il giudizio storico sulle origini del fascismo. La storiografia marxista, infatti, sostiene che il movimento fascista fu sin dalla sua nascita una gratuita e prepotente esplosione di violenza. Lo sviluppo del fascismo nella vita politica nazionale è stato, in realtà, ben più problematico e basta rifarsi al solito De Felice per prenderne atto. Ciò che sfugge dalla versione comunista dei fatti è che il fascismo nacque “come reazione a un clima di violenze - scrive Adriano Romualdi - instaurato dalle sinistre e tollerato da governi democratici fiacchi e imbelli”. Fermiamoci su questo ‘clima di violenze’ ed inquadriamolo storicamente nel contesto politico del tempo in cui sorse il movimento fascista. Sono, quelli del 1919-21, gli anni del ‘biennio rosso’; in Italia, come nel resto d’Europa, il massimalismo socialista - dal quale nascerà nel 1921 il Pci - vuole “fare come in Russia”. Serrati e più ancora Bordiga e Gramsci, vogliono “sovietizzare l’Italia”. Il neonato Partito Popolare di Sturzo, la componente socialista riformista di Turati e della Cgl, l’universo liberaldemocratico giolittiano, salandrino e nittiano mostrano tutta la loro debolezza ed incapacità a realizzare una ‘grande politica’ che possa disinnescare il massimalismo. Che peraltro non sa uscire dal velleitarismo di una rivoluzione proclamata a parole e non sa intercettare i nuovi sentimenti che animano la massa tornata dalle trincee. Il biennio rosso anche in Italia genererà la ‘grande paura’ di una rivoluzione come quella del 1917. Da qui proviene quel ‘clima di violenze’ che sfocia in quella che Francesco Coppellotti ha definito “l’unica guerra civile combattuta dagli italiani non per procura” e che terminerà con “la rivoluzione nazionale del fascismo fondata sull’alleanza Mussolini Gentile”. Ecco perché va ricordato che non ci furono solo le bastonature di deputati antifascisti e le spedizioni punitive contro Camere del Lavoro, sedi di giornali o di partito e così via. Dalla ricostruzione storica di quel periodo drammatico non devono sfuggire le violenze massimaliste ed il terrore rosso, il conflitto fra ‘Guardie Rosse’ e ‘Squadre d’Azione’, fra ‘Arditi del Popolo’ e ‘Camicie Nere’, con morti e feriti e stragi da entrambe le parti e tra le forze dell’ordine; soprattutto non devono sfuggire le responsabilità prime. Non si tiene in conto, ad esempio, che ancor prima dello squadrismo agrario nelle campagne padane dilagò l’estremismo massimalista. “Nel 1919-20 - ha documentato De Felice - il potere dei ‘leghisti’ fu pressoché assoluto; i proprietari, le amministrazioni locali, lo stesso Stato erano impotenti”. I massimalisti erano contrari ad ogni riforma agraria che prevedesse la costituzione di tante piccole proprietà coltivatrici e organizzarono la lotta in modo assolutamente violento. Le Camere del Lavoro detenevano il monopolio assoluto della mano d’opera e quei braccianti che non si adeguavano alle direttive ‘rosse’ o non aderivano alle organizzazioni di sinistra venivano boicottati, intorno a loro in paese si creava il vuoto assoluto. “In periodo di sciopero gli incendi dei fienili, la distruzione dei raccolti, l’uccisione dei capi di bestiame, le violenze ai proprietari e ai contadini coltivatori - scrive Luigi Preti - diventavano frequentissimi”. Una situazione che si ripercosse contro lo stesso proletariato agricolo che, nel nome della parola d’ordine mussoliniana “la terra a chi la lavora” passò con i fascisti. E’ nel 1921, infatti, che dilaga lo squadrismo fascista nella pianura padana e la reazione è violenta tanto quanto lo era stata l’aggressione massimalista. In quell’anno le organizzazioni sindacali bracciantili fasciste si affollano di lavoratori agricoli delusi dall’inconcludente estremismo dei socialisti massimalisti e dall’attendismo sterile dei socialisti riformisti. Dalle campagne alle città, alle fabbriche, si ripetette lo stesso schema: terrore rosso e successiva reazione nera; violenza chiamò violenza, sangue chiamò sangue; fu guerra civile, voluta e scatenata dai leninisti di casa nostra, ed è arrivato il momento di prenderne atto e di ricordare accanto alle vittime rosse anche quelle vittime nere ingiustamente ignorate dai manuali di storia delle nostre scuole. Come lo studente Pierino Dal Piano, figlio di una portinaia, assassinato a Torino il 2 dicembre 1919 dai dimostranti di sinistra perché si era rifiutato di gridare “viva la Russia” ed urlò “viva l’Italia!”. Come Mario Sonzini, lavoratore della Fiat, sequestrato a Torino il 22 settembre 1920 da un “tribunale del popolo” che lo condannò ad essere gettato vivo negli altiforni perché nazionalista; poiché questi erano spenti il Sonzini venne giustiziato con un colpo di pistola. Ed allo stesso modo morì l’operaio Costantino Scimula, ventenne. E tralasciamo la strage del Teatro Diana a Milano; l’assalto rosso alle carceri di Mantova durante il quale morì la moglie di un guardiano; la sparatoria anarchica del 26 giugno 1920 contro un treno nei pressi di Ancona che costò la vita a sei passeggeri; i fatti del novembre 1920 a Bologna dove le Guardie Rosse lanciarono bombe a mano sulla folla assiepata davanti al Municipio provocando nove morti mentre nell’aula comunale, dai banchi di Sinistra, si aprì il fuoco contro i consiglieri della Destra ed il nazionalista Pietro Giordani cadeva ucciso, tutto perché i fascisti volevano togliere la bandiera rossa issata sul pennone del palazzo comunale. Sono fatti tra centinaia di episodi simili che lasciano capire quale fu lo stato d’animo ed il clima politico che si creò in Italia durante il biennio rosso. E’ dopo questi fatti - non prima - che si scatena la violenza fascista. Certo, in modo altrettanto estremo e più organizzato. Ma va ricordato che il movimento fascista che nel 1920 contava circa ventimila iscritti, passò a duecentomila nel 1921; e va tenuto in considerazione che esso non si sarebbe sviluppato fino ad affermarsi se non fosse stato sostenuto ed appoggiato dal consenso dell’opinione pubblica stanca delle inutili violenze rosse. “Il fascismo creò la dittatura - nota Adriano Romualdi - ma la maggior parte di coloro contro cui si esercitava la sua violenza volevano anch’essi una dittatura, una dittatura di tipo sovietico”. Era stato il socialismo massimalista a scatenare la violenza con il mito dell’Italia ‘sovietica’, i fascisti contrapposero il mito dell’Italia ‘Romana’ e fu guerra civile. Non si deve tuttavia commettere l’errore di credere che la coscienza di alcuni capi politici non sia stata profondamente turbata e scossa da quel che stava accadendo; fra tanta insensibilità ci fu pure chi visse in modo drammatico gli eventi. Qualche mese prima della marcia su Roma, Nenni e Mussolini ebbero una lunga conversazione a Cannes, lontani dalle contingenze politiche che li avevano portati su fronti contrapposti ma che non avevano incrinato l’antica amicizia. Nenni accusò il suo antico compagno di essere diventato strumento degli interessi antiproletari, Mussolini rispose con un diniego e ricordò che “quando ho parlato di pace mi si è riso in faccia; ho dovuto allora accettare la guerra”. Nenni replicò dicendogli: “dimentichi che sei stato il capo del Partito Socialista e che probabilmente gli operai sui quali s’avventano le tue camicie nere erano divenuti socialisti al tuo appello”. Al che Mussolini ribattè: “so che i morti pesano. Spesso penso al mio passato con profonda malinconia. Ma non ci sono soltanto le poche decine di morti della guerra civile. Ci sono le centinaia di migliaia di morti della guerra. Anche questi, bisogna difenderli”. Nelle parole di questa conversazione vi è tutta la complessità delle origini del fascismo e di quella guerra civile dimenticata. Il vero nodo da sciogliere nella storia italiana non è negli eventi del 1943-45, ma in quelli del 1919-21.