giovedì 4 giugno 2009

Il rabbino Hen, massacratore di bambini

di Maurizio Blondet



Il Brasile ha finalmente concesso l’estradizione di Elior Noam Hen o Chen, il rabbino ricercato da Israele per avere, con diversi seguaci, commesso inenarrabili violenze su almeno otto bambini fra i tre e quattro anni. Sono stati usati martelli, coltelli e seghe; le piccole vittime sono state costrette a mangiare le proprie feci, a bere alcool mescolato con trementina, rinchiuse in una valigia per giorni, ustionate; è stato spillato loro sangue, forse per scopi rituali; uno dei bambini ha subito danni cerebrali permanenti ed è in stato vegetativo. Rabbi Hen o Chen era fuggito in Brasile dopo che i suoi delitti erano stati scoperti, nel marzo 2008. L’evento ha sollevato un velo sinistro sulla «religiosità» dei gruppi haredi più chiusi, fanatici e cabbalistici.L’orribile verità comincia ad emergere ai primi di marzo 2008, quando due bambini sono portati in un ospedale di Gerusalemme con bruciature e lesioni gravissime, il più piccolo in coma (i medici gli rileveranno fratture multiple del cranio e delle costole). Sono due degli otto figli di una donna di 38 anni, nata in una ricca famiglia della comunità ebraica di New York e che ha compiuto «l’ascesa» nella terra promessa una decina di anni prima; anche suo marito è tuttora cittadino americano (1).
Gli attrezzi usati dalla setta per torturare i bambini. In alcuni casi, si è appurato che le fratture delle piccole vittime sono state prodotte con i martelli
Dove abitano entrambi vengono arrestati per le violenze sui figli. La donna prima confessa di esserne l’autrice, e poi ritratta. Il marito viene rilasciato perchè dimostra di non essere stato in casa da giorni. In casa, nel quartiere ultra ortodosso di Beith Shemesh, la polizia trova oggetti usati della tortura, calze di nylon sporche di sangue usate per legare i bambini. I figli più grandicelli della coppia ammettono di essere stati sistematicamente maltrattati dalla madre per ordine del loro rabbino, Elior Chen, 30 anni. Vengono arrestati altri due adepti, due uomini (Shimon Gabai e Avraham Maskali, studente di yeshiva) che il rabbino aveva istruito per fare esorcismi (tikkunim) sui bambini della donna con pietre roventi e stufe al calor bianco. Il rabbino è lesto a fuggire ancor prima di essere incriminato, dapprima in Canada poi in Brasile, si ritiene nel seno di altre cellule della setta.Le indagini si rivelano subito difficili, ammette l’agenzia ufficiosa Ynet il 6 aprile, per l’omertà della «comunità haredi sui casi di violenza contro i bambini» (2). Violenza sessuale particolarmente frequente in quei gruppi chiusi e auto-isolati, anche se non risparmia gli altri strati della popolazione (alla magistratura arrivano 38 mila casi l’anno, su una popolazione di 6 milioni di abitanti). «Un caso recente e inquetante è quello di una madre di Netivot che molestava sessualmente il suo piccolo, e la cosa è venuta alla luce solo quando il bambino, che aveva cominciato a frequentare una scuola, prese a molestare un altro scolaro». La violenza sessuale sui bambini è condonata dal Talmud: una bambina sotto i tre anni può essere penetrata, perchè «è come un dito in un occhio, escono lacrime... la verginità torna a una bambina di tre anni» (3).Tali comportamenti sono tanto comuni», che in Israele esiste una Shlom Banecha Foundation per il sostegno delle vittime di pedofilia, abusi e incesti nelle comunità haredi. Il direttore, Doron Aggasi, dice: «Questi casi sono stati sepolti in passato, perchè gli haredi non vogliono rivelare niente agli estranei. Lavano i panni sporchi in famiglia. Ora però le cose vanno meglio, i rabbini sono più consapevoli sui temi dell’abuso sessuale e della violenza familiare». Convincere i membri della comunità haredi a collaborare con la polizia è quasi impossibile, dice Miki Miller, assistente sociale: «Essi credono che la loro società, per essere pura, dev’essere chiusa. E dietro la chiusura, nascondono una quantità di perversioni». Nel quartiere di Beit Shemes si ricorda ancora una famosa donna, a suo modo una rabbina, che per modestia nascondeva la faccia dietro un velo nero; questo particolare le attrasse una quantità di discepole. Poi si scoprì che la santa donna picchiava selvaggiamente i figli da anni; quando fu arrestata, uno dei figli confessò che la mamma li incoraggiava ad atti sessuali tra i fratelli, ancora bambini. Gli uomini, barbuti e riccioluti, vestiti di nero come polacchi del 18mo secolo, sono padri-padroni: picchiano le mogli e i figli di preferenza nello Shabbat, quando la famiglia è riunita per il pasto rituale. Le donne sopportano e tacciono, per mantenere l’onore della famiglia. La credibilità del marito come «studioso della Torah» (gli uomini non lavorano, solo «studiano la Torah») deve restare immacolata come la neve. Nel 2007, si sono registrayi ben 1.402 casi di donne che hanno chiesto aiuto dalle percosse e dalle violenze, e la polizia ritiene siano solo una minoranza infima; i casi non denunciati sono molto di più. La cosa sta peggiorando, dice Anat Zuria, una regista cinematografica che ha fatto documentari nell’ambiente ultra-religioso, perchè «gli hared stanno diventando ogni giorno più messianici, pensano che l’arrivo del messia sia imminente, e che verrà solo se le donne sono pure e modeste. Ragazzi e bambini vengono tenuti separati molto presto. Qualunque argomento sul sesso è bandito. Tutti questi tabù sono intesi a farli santi; spesso, ne fanno dei pervertiti».Nonostante le difficoltà, la polizia ricostruisce a poco a poco la vicenda. Elio Chen, il rabbino soggiogatore, è cresciuto nel quartiere di Romema a Gerusalemme, uno dei sette figli di una madre che serviva nel locale bagno rituale per le donne mestruate, e di un padre, Yaakov, fervente sionista religioso, militare da giovane in un commando e decorato per audacia. A fine degli anni ‘70, l’ex eroe di Tsahal accentua la sua religiositòà; accetta un modestissimo impiego al servizio del rabbinato-capo di Gerusalemme, dà ai suoi figli una educazione ultra-ortodossa, e sogna per Elior, il preferito, un brillante futuro come erudito della Torah. Compra molti libri religiosi; fra cui numerosi volumi sulla Kabbala, in cui Elior s’immerge fin dai 12 anni di età. Alla bar miztvah della giovane speranza, nel ‘92, c’era tutto il fior fiore del rabbinato sefardita e askenazita. Elior fu mandato a studiare alla yeshiva ultra-fanatica di Oz Levissachar, dove è rimasto a studiare la Torah e la cabbala per dieci anni. Fondata dal rabbino Haim Pinto per i ragazzi più poveri della comunità hassidica, questa scuola segue gli insegnamenti di Nachman di Bratislava (1772-1818): un bisnipote di Baal Shemtov, il fondatore dell’hassidismo, grande cabbalista-mago. Secondo la Enciclopedia Judaica si faceva passare per Messia (cosa che i suoi adepti negano) e secondo alcuni studiosi, era influenzato dall’anomismo di Sabbatai Zevi e Jacob Frank: la sua credenza nel tikkun olam, il risanamento kabbalistico del mondo, ha molte somiglianze con il pensiero di Sabbatai Zevi.Fatto sta che la yeshiva di rabbi Pinto non è affiliata a nessuna scuola hassidica particolare. Anzi, i suoi allievi sono in rotta con gli ambienti dell’establishment ultra-ortodosso, da cui si dicono «oppressi» e «feriti». Hanno formato un gruppo chiamato «Pitzuei Hanahal» (Brocca Traboccante, o qualcosa del genere), fortemente militante. I suoi membri, che non si sposano, spregiano l’ingegnamento nelle yeshivot più rinomate (dove del resto, i ricchi rabbini non li lasciano entrare) e si istruiscono vagando nelle boscaglie o sulle tombe di vecchi santi talmudici. Ma trovano il tempo di spargere il terrore fra gli arabi costretti a passare nel quartiere Shmuel Hanavi di Gerusalemme;lì hanno il loro covo, e lì picchiano i goym che ci passano. Spesso con violenza tale, da finire davanti alla magistratura israeliana, pur così leniente verso i «religiosi» picchiatori. Propprio per il suo estremismo religioso e militante, la scuola ha attratto ogni sorta di rifugiati dagli insediamenti resisi insopportabili agli altri membri, neo-convertiti americani all’ebraismo «duro», e scacciati dalle altre yeshivot per eccessi diversi.In questo ambiente è cresciuto Elior Chen, studente preferito di rabbi Pinto, che se l’è affiancato come «ba’al shi-ur» (assistente, o qualcosa del genere) e gli ha anche trovato una moglie askenazi; di famiglia prestigiosa per lui che, sefardita, non poteva aspirare alla figlia di un askenazita. Senza essere ancora formalmente rabbino, Elior già ha cominciato ad attrarre seguaci affascinati non solo dalla sua conoscenza della cabbala, ma per il fatto che la praticava, ossia che praticava la magia. Il giovanotto aveva dei «poteri». La sua popolarità crebbe tanto, dicono i suoi ex compagni di studi, che Elior cominciò a disprezzare la scuola Oz Levissachar, troppo «piccola» per le sue doti. D’altro canto, rabbi Pinto cercò di vietargli di insegnare e praticare la cabbala: «Ai giovani non è permesso insegnare la cabbala». Finirono per litigare.Elior Chen se ne andò, portando con sè diversi studenti: il primo nucleo dei suoi adepti, che gli obbediscono ciecamente. «Se lui ordina di buttarsi dalla finestra, loro si buttano», dice un ex studente. Rabbi Chen dominava la vita di queste persone totalmente. Decretava come dovessero educare i figli. Combinava matrimoni fra i seguaci, o li rompeva. La ricca ebrea americana che ha torturato i figli ha avuto l’ordine di separarsi dal marito, ed entrambi hanno obbedito senza fiatare. Il marito, anche lui americano, se n’è andato di casa lasciando gli otto figli alla moglie e agli «assistenti» di rabbi Chen. Per questo, almeno, s’è salvato dall’incriminazione, Non ha partecipato alle torture.Adesso un altro rabbino, Ytzak Batzri, ricorda che circa due anni prima negli ambienti «mistici» si cominciava a parlare di un «santo nascosto», un giovane talmudico con poteri sovrannaturali, da cui la gente accorreva per farsi fare a pagamento esorcismi e purificazioni (tikkunim), per farsi dare amuleti, acqua «benedetta» e partecipare ad altri rituali più inquietanti. Di fatto, rabbi Elior Chen aveva cominciato ad «invocare i nomi» delle potenze invisibili per «influenzare la realtà», e secondo i suoi seguaci otteneva guarigioni e faceva miracoli. La «invocazione dei nomi» fa parte della cabbala, o della sua pretesa di «rivelare i segreti della creazione». E’ un settore proibito, contro cui metteva in guardia i neofiti anche il grande (diciamo) Isaac Luria, il massimo cabbalista del sedicesimo secolo.«Chi pratica l’invocazione dei nomi si espone all’influsso di spiriti maligni e demoni», dice rabbi Batzri ad Haaretz, «come Samael e Lilith. Certamente sono stati spiriti del genere ad indurli a compiere atti innominabili sui bambini, come i pagani bruciavano i figli a Moloch» (4).Un cognato di Chen dice ad Haaretz: «Certe cose le ho viste coi miei occhi. Poteva starsene seduto a far muovere le cose nella stanza recitando versi. Una volta mi ha letto la mano e mi ha detto cose che sono sicuro non potesse sapere». Un altro studente della yeshiva, che non vuol dire il suo nome perchè convinto che Chen possa lanciargli il malocchio a distanza: «Era uno che poteva guidare da Gerusalemme a Tel Aviv e poi al nord e ritorno senza pagare niente... Chiedeva quanti soldi ci volevano, e diceva: «Prendi un libro qualunque e aprilo» e c’erano dentro i soldi. L’ho visto coi miei occhi». Lo Shin Bet, la sicurezza interna, conosceva Chen e il suo gruppo come «estremisti politici molto decisi».Nel maggio 2005, quando Sharon ordinò il ritiro degli insediamenti ebraici a Gaza e i coloni si ribellarono con vasti disordini, la polizia politica fu informata di un gruppuscolo che aveva in animo di provocare una guerra totale contro tutti gli arabi, compiendo un attentato contro la spianata delle moschee, il Monte del Tempio per gli ebrei. Due allievi di Chen, due fratelli di nome Avtalion e Akiva Kadosh, si preparavano a sparare un missile «Lau» verso il monte del Tempio da una scuola rabbinica collegata, la Bratslav Shuvu Banim yeshiva; a tirare granate alla polizia sopraggiunta, e poi a suicidarsi. Ci furono degli arresti e un processo. Naftali Wurtzburger, uno dei legali d’ufficio assegnati al gruppo, ricorda: «Erano allucinati della setta di Bratslav, parlavano di voler redimere il mondo facendo saltare il Monte del Tempio». Si ricorda di Chen: «Era il capo, il guru. Ma non era solo una personalità dominante; è che tutti parlavano a livello religioso. Parlavano di redimere il mondo con azioni grandiose, erano messianici. Alla fine anche lo Shin Bet si convinse di avere a che fare con degli allucinati innocui».Fatto è che dopo questo episodio, rabbi Chen rese il suo gruppo ancora più chiuso: benchè la sua fama di «santo nascosto» e miracoloso continuasse a crescere, rifiutò altri adepti e mantenne solo un nucleo di fedelissimi, di non più di 15 persone su cui esercitava un potere psichico totale. E’ stato lui a ordinare alla madre degli otto bambini di abbandonare il marito, e ad espellere l’uomo dal gruppo. Gli agenti sospettano che fosse nata una relazione sessuale fra il rabbino-guru e la donna, perchè dopo, il rabbino stava spesso nella casa da cui aveva fatto cacciare il marito.
Rabbi Elior Chen (terzo da sinistra, con l’abito bianco) con tre dei suoi seguaci, co-imputati nei delitti
I capi religiosi ebraici sono ambivalenti. Yona Metzger, il rabbino-capo degli askenaziti, dice che i genitori e Chen devono essere «scomunicati»; Vicki Polin, psichiatra che ha trattato vittime di abusi del genere, scrive una lettera aperta in cui esprime meraviglia: «E’ strano che rabbi Yona Metzger faccia tali dichiarzzioni, tanto più che egli è stato accusato anni fa di abusi sessuali con quattro clerici maschi». Rabbi Levi Brackman, famoso per un libro intitolato «Jewish Business success», invita a non criminalizzare l’intera comunità haredi.Intanto Chen, dal Canada, si trasferisce in Brasile - Stato che non ha un accordo di estradizione con Israele - dove vive protetto dalla comunità ebraica locale. Ma infine la comunità brasiliana lo spinge a consegnarsi, perchè la faccenda è diventata troppo pubblica (lo ricerca anche l’Interpol) e il rabbino massacratore danneggia l’immagine degli ebrei. Per lunghi mesi Chen, assistito da avvocati ebrei, conduce una lotta giudiziaria per non essere estradato. Singolare l’argomento che usa: siccome i fatti criminosi sono avvenuti a Beitar Ilit dove abitano i membri della setta, e siccome Beitar Ilit è un insediamento abusivo in Cisgiordania ossia in territorio «autonomo» palestinese, la difesa del rabbino sostiene che Israele non ha alcun diritto legale di esigerne la consegna. Se mai, a chiedere che il rabbino sia estradato dovrebbe essere l’Autorità Nazionale Palestinese.Un bell’esempio di «chutzpah». E un grave imbarazzo per lo Stato ebraico. Il ministero della Giustizia israeliano deve spiegare per iscritto alla corte suprema brasiliana, dove la causa è giunta, che la Cisgiordania è territorio occupato da Israele e non già - come fanno notare i difensori di Chen - quello che sostiene il governo israeliano, un territorio autonomo o in via di autonomia. Alla fine la spinosa questione trova un escamotage da legulei: la Autorità Palestinese, viene detto, ha deferito ad Israele questo genere di rapporti con l’estero... Il Brasile, stante anche la gravità dei delitti di cui Chen è accusato, consegna il «santo nascosto» all’entità sionista.Il processo, imminente, promette di diventare una «cause célèbre», forse distruttiva per quelle che gli studiosi chiamano «il misticismo ebraico», i suoi metodi, le sue superstizioni e le sue perversioni e la sua amoralità (ricordiamo che al «misticismo» haredi appartiene il potente gruppo Lubavitcher).Possiamo essere certi che sui nostri media non ne apparirà una riga.




1) Jonathan Lis, «Parents held in case of Jerusalem child abuse», Haaretz, 15 marzo 2008.

2) Yael Branovsky, «State helpless in face of skeletons in haredi closet», YNet.News, 3 aprile 2008.

3) Trattato Ketuboth, 11b. Si veda anche il Trattato Sanhedrin, 55b: una bambina di tre anni e un giorno «può essere presa in matrimonio per coito». «Sanhedrin, 54b: un ebreo «può sodomizzare un bambino se questo ha meno di nove anni». O ancora Ketuboth 11°: «Quando un bambino di meno di nove anni ha rapporti sessuali con una donna adulta, o quando una bambina sotto i 3 anni è accidentalmente ferita (nell’imene, evidentemente per masturbazione) con un pezzo di legno, non vale a loro riguardo l’accusa di non-verginità».

4) …«Child-abuse case leaves investigators stunned; Israel seeks to prepare international warrant, extradite rabbi», Kingston Whig-Standard - April 9, 2008, http://www.thewhig.com/ArticleDisplay.aspx?e=978454

venerdì 8 maggio 2009

ITALIA 1919-1921. LA GUERRA CIVILE DIMENTICATA









di Michelangelo Ingrassia






“La storia italiana non ha episodi così atroci come quello di piazzale Loreto. Nemmeno le tribù antropofaghe infieriscono sui morti. Bisogna dire che quei linciatori non rappresentavano l’avvenire, ma un ritorno all’uomo ancestrale (che forse, era moralmente più sano dell’uomo civilizzato)”.
Con queste parole Benito Mussolini - il cui corpo proprio in quel piazzale sarebbe stato vittima di un ancor più atroce oltraggio - commentava sul Popolo d’Italia del 26 giugno 1920 uno dei tanti fatti di sangue di quella guerra civile del 1919-1921 dimenticata: durante gli scontri seguiti ad uno sciopero di ferrovieri, i socialisti massimalisti avevano ucciso un carabiniere ed avevano poi lungamente infierito sul suo cadavere; lì, in quello stesso piazzale milanese dove nel 1944 sarebbero stati trucidati quindici italiani come rappresaglia per l’uccisione partigiana di due soldati tedeschi, e dove nel 1945 “la carogna del Duce dei malfattori - come scrisse velenosamente il comunista Pajetta - sarebbe stata esposta alla gogna”.
Per una di quelle incredibili coincidenze che a volte la Storia vuole e prepara - forse per ricondurre gli uomini sulla via del rispetto ad essa, ai suoi cicli, al suo eterno ritorno - piazzale Loreto si è macchiata del sangue delle due guerre civili italiane seguite alle due guerre mondiali: quella del 1943-45 e quella del 1919-1921. Entrambe sono state maltrattate da una vulgata ideologica che - parafrasando Rosario Romeo - ha contrapposto alla storia accaduta una storia alternativa; in entrambi i casi si è voluto evitare di mettere sullo stesso piano comunisti e fascisti; da qui falsificazioni, deformazioni e mistificazioni che hanno manipolato la prospettiva politica di quell’epoca compresa tra le due guerre civili. Se quella degli anni ‘40 è stata a lungo negata, la prima guerra civile italiana è stata rimossa, come dimostra una bibliografia povera e datata. In questo modo le responsabilità e le colpe di quanto accadde allora in Italia sono state addossate solo al fascismo. E’ così che si è tolto di mezzo il ‘pericolo rosso’, si è cancellata la violenza comunista, si sono occultate le vittime fasciste e sono rimasti in campo solo il ‘pericolo nero’ e la violenza squadrista. Tutto questo è servito per alterare il giudizio storico sulle origini del fascismo. La storiografia marxista, infatti, sostiene che il movimento fascista fu sin dalla sua nascita una gratuita e prepotente esplosione di violenza. Lo sviluppo del fascismo nella vita politica nazionale è stato, in realtà, ben più problematico e basta rifarsi al solito De Felice per prenderne atto. Ciò che sfugge dalla versione comunista dei fatti è che il fascismo nacque “come reazione a un clima di violenze - scrive Adriano Romualdi - instaurato dalle sinistre e tollerato da governi democratici fiacchi e imbelli”. Fermiamoci su questo ‘clima di violenze’ ed inquadriamolo storicamente nel contesto politico del tempo in cui sorse il movimento fascista. Sono, quelli del 1919-21, gli anni del ‘biennio rosso’; in Italia, come nel resto d’Europa, il massimalismo socialista - dal quale nascerà nel 1921 il Pci - vuole “fare come in Russia”. Serrati e più ancora Bordiga e Gramsci, vogliono “sovietizzare l’Italia”. Il neonato Partito Popolare di Sturzo, la componente socialista riformista di Turati e della Cgl, l’universo liberaldemocratico giolittiano, salandrino e nittiano mostrano tutta la loro debolezza ed incapacità a realizzare una ‘grande politica’ che possa disinnescare il massimalismo. Che peraltro non sa uscire dal velleitarismo di una rivoluzione proclamata a parole e non sa intercettare i nuovi sentimenti che animano la massa tornata dalle trincee. Il biennio rosso anche in Italia genererà la ‘grande paura’ di una rivoluzione come quella del 1917. Da qui proviene quel ‘clima di violenze’ che sfocia in quella che Francesco Coppellotti ha definito “l’unica guerra civile combattuta dagli italiani non per procura” e che terminerà con “la rivoluzione nazionale del fascismo fondata sull’alleanza Mussolini Gentile”. Ecco perché va ricordato che non ci furono solo le bastonature di deputati antifascisti e le spedizioni punitive contro Camere del Lavoro, sedi di giornali o di partito e così via. Dalla ricostruzione storica di quel periodo drammatico non devono sfuggire le violenze massimaliste ed il terrore rosso, il conflitto fra ‘Guardie Rosse’ e ‘Squadre d’Azione’, fra ‘Arditi del Popolo’ e ‘Camicie Nere’, con morti e feriti e stragi da entrambe le parti e tra le forze dell’ordine; soprattutto non devono sfuggire le responsabilità prime. Non si tiene in conto, ad esempio, che ancor prima dello squadrismo agrario nelle campagne padane dilagò l’estremismo massimalista. “Nel 1919-20 - ha documentato De Felice - il potere dei ‘leghisti’ fu pressoché assoluto; i proprietari, le amministrazioni locali, lo stesso Stato erano impotenti”. I massimalisti erano contrari ad ogni riforma agraria che prevedesse la costituzione di tante piccole proprietà coltivatrici e organizzarono la lotta in modo assolutamente violento. Le Camere del Lavoro detenevano il monopolio assoluto della mano d’opera e quei braccianti che non si adeguavano alle direttive ‘rosse’ o non aderivano alle organizzazioni di sinistra venivano boicottati, intorno a loro in paese si creava il vuoto assoluto. “In periodo di sciopero gli incendi dei fienili, la distruzione dei raccolti, l’uccisione dei capi di bestiame, le violenze ai proprietari e ai contadini coltivatori - scrive Luigi Preti - diventavano frequentissimi”. Una situazione che si ripercosse contro lo stesso proletariato agricolo che, nel nome della parola d’ordine mussoliniana “la terra a chi la lavora” passò con i fascisti. E’ nel 1921, infatti, che dilaga lo squadrismo fascista nella pianura padana e la reazione è violenta tanto quanto lo era stata l’aggressione massimalista. In quell’anno le organizzazioni sindacali bracciantili fasciste si affollano di lavoratori agricoli delusi dall’inconcludente estremismo dei socialisti massimalisti e dall’attendismo sterile dei socialisti riformisti. Dalle campagne alle città, alle fabbriche, si ripetette lo stesso schema: terrore rosso e successiva reazione nera; violenza chiamò violenza, sangue chiamò sangue; fu guerra civile, voluta e scatenata dai leninisti di casa nostra, ed è arrivato il momento di prenderne atto e di ricordare accanto alle vittime rosse anche quelle vittime nere ingiustamente ignorate dai manuali di storia delle nostre scuole. Come lo studente Pierino Dal Piano, figlio di una portinaia, assassinato a Torino il 2 dicembre 1919 dai dimostranti di sinistra perché si era rifiutato di gridare “viva la Russia” ed urlò “viva l’Italia!”. Come Mario Sonzini, lavoratore della Fiat, sequestrato a Torino il 22 settembre 1920 da un “tribunale del popolo” che lo condannò ad essere gettato vivo negli altiforni perché nazionalista; poiché questi erano spenti il Sonzini venne giustiziato con un colpo di pistola. Ed allo stesso modo morì l’operaio Costantino Scimula, ventenne. E tralasciamo la strage del Teatro Diana a Milano; l’assalto rosso alle carceri di Mantova durante il quale morì la moglie di un guardiano; la sparatoria anarchica del 26 giugno 1920 contro un treno nei pressi di Ancona che costò la vita a sei passeggeri; i fatti del novembre 1920 a Bologna dove le Guardie Rosse lanciarono bombe a mano sulla folla assiepata davanti al Municipio provocando nove morti mentre nell’aula comunale, dai banchi di Sinistra, si aprì il fuoco contro i consiglieri della Destra ed il nazionalista Pietro Giordani cadeva ucciso, tutto perché i fascisti volevano togliere la bandiera rossa issata sul pennone del palazzo comunale. Sono fatti tra centinaia di episodi simili che lasciano capire quale fu lo stato d’animo ed il clima politico che si creò in Italia durante il biennio rosso. E’ dopo questi fatti - non prima - che si scatena la violenza fascista. Certo, in modo altrettanto estremo e più organizzato. Ma va ricordato che il movimento fascista che nel 1920 contava circa ventimila iscritti, passò a duecentomila nel 1921; e va tenuto in considerazione che esso non si sarebbe sviluppato fino ad affermarsi se non fosse stato sostenuto ed appoggiato dal consenso dell’opinione pubblica stanca delle inutili violenze rosse. “Il fascismo creò la dittatura - nota Adriano Romualdi - ma la maggior parte di coloro contro cui si esercitava la sua violenza volevano anch’essi una dittatura, una dittatura di tipo sovietico”. Era stato il socialismo massimalista a scatenare la violenza con il mito dell’Italia ‘sovietica’, i fascisti contrapposero il mito dell’Italia ‘Romana’ e fu guerra civile. Non si deve tuttavia commettere l’errore di credere che la coscienza di alcuni capi politici non sia stata profondamente turbata e scossa da quel che stava accadendo; fra tanta insensibilità ci fu pure chi visse in modo drammatico gli eventi. Qualche mese prima della marcia su Roma, Nenni e Mussolini ebbero una lunga conversazione a Cannes, lontani dalle contingenze politiche che li avevano portati su fronti contrapposti ma che non avevano incrinato l’antica amicizia. Nenni accusò il suo antico compagno di essere diventato strumento degli interessi antiproletari, Mussolini rispose con un diniego e ricordò che “quando ho parlato di pace mi si è riso in faccia; ho dovuto allora accettare la guerra”. Nenni replicò dicendogli: “dimentichi che sei stato il capo del Partito Socialista e che probabilmente gli operai sui quali s’avventano le tue camicie nere erano divenuti socialisti al tuo appello”. Al che Mussolini ribattè: “so che i morti pesano. Spesso penso al mio passato con profonda malinconia. Ma non ci sono soltanto le poche decine di morti della guerra civile. Ci sono le centinaia di migliaia di morti della guerra. Anche questi, bisogna difenderli”. Nelle parole di questa conversazione vi è tutta la complessità delle origini del fascismo e di quella guerra civile dimenticata. Il vero nodo da sciogliere nella storia italiana non è negli eventi del 1943-45, ma in quelli del 1919-21.

giovedì 22 gennaio 2009

Il Papa cancella la scomunica ai vescovi nominati da Lefebvre




di Andrea Tornielli





Roma - Benedetto XVI ha deciso di revocare la scomunica ai quattro vescovi consacrati da Lefebvre nel 1988. Il decreto, che il pontefice ha già firmato, sarà pubblicato entro la fine della settimana. Il superiore della Fraternità San Pio X, Bernard Fellay, e gli altri tre vescovi, Alfonso de Gallareta, Tissier de Mallerais e Richard Williamson non saranno dunque più scomunicati.
La decisione di Papa Ratzinger è maturata negli ultimi mesi, in seguito alla lettera con la quale monsignore Fellay aveva chiesto la revoca del provvedimento comminato da Giovanni Paolo II nel 1988, dopo che l’arcivescovo Marcel Lefebvre, rifiutando in extremis un accordo già siglato con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, consacrò vescovi quattro giovani sacerdoti del clero della Fraternità. Un atto scismatico, perché quelle consacrazioni non erano legittimate dal pontefice, giustificato invece da Lefebvre per ragioni di sopravvivenza della sua comunità tradizionalista. Una comunità che non aveva accettato la riforma liturgica post conciliare né alcuni decreti del Vaticano II, peraltro firmati dallo stesso Lefebvre, come nel caso di quello sulla libertà religiosa. Scomunicati, ventun anni fa, furono lo stesso Lefebvre, l’anziano vescovo brasiliano Antonio de Castro Mayer, che partecipò alla consacrazione avvenuta in Svizzera (entrambi da tempo scomparsi), e i quattro neovescovi. Il cammino di riavvicinamento, iniziato con Papa Wojtyla dopo che i lefebvriani guidarono un pellegrinaggio a Roma per il Giubileo del 2000, è continuato con alti e bassi. Ma ha subito un’accelerazione dopo l’elezione di Ratzinger. La Fraternità ha chiesto al pontefice di liberalizzare la messa antica per tutta la Chiesa. E questo Benedetto XVI ha fatto, con il motu proprio «Summorum Pontificum», pensando non tanto e non solo ai lefebvriani, ma soprattutto a quei tradizionalisti rimasti nella piena comunione con Roma ma spesso penalizzati o guardati con sospetto perché rimasti legati alla liturgia preconciliare. Poi è stata chiesta la revoca della scomunica - che, va precisato, ha riguardato soltanto i vescovi, non i cinquecento preti della Fraternità né tantomeno i fedeli che ne seguono le celebrazioni - e richiedendola, Fellay ha voluto manifestare l’attaccamento al Papa e la volontà della piena comunione. I lefebvriani hanno anche compiuto di recente un pellegrinaggio a Lourdes, dove i quattro vescovi hanno lanciato l’iniziativa di far recitare ai fedeli un milione e settecentomila rosari per chiedere alla Madonna che la scomunica fosse tolta.
Il decreto che sarà reso noto nelle prossime ore non significa di per sé la soluzione del problema lefebvriano, ma rappresenta un passo importante. Il prossimo passò sarà un accordo che dia alla Fraternità San Pio X uno status giuridico nella Chiesa cattolica. La decisione di revocare la scomunica è un atto di grande magnanimità di Benedetto XVI, che va nella linea di sanare fratture e divisioni nel corpo ecclesiale e di riaccogliere nella piena comunione oltre ai vescovi, anche i sacerdoti e i fedeli. Nel giugno scorso il cardinale Darío Castrillón Hoyos, presidente della Pontificia commissione «Ecclesia Dei», aveva posto a monsignor Fellay condizioni per proseguire il dialogo con la Fraternità, chiedendo ai lefebvriani «l’impegno a una risposta proporzionata alla generosità del Papa», a «evitare ogni intervento pubblico che non rispetti la persona del Santo Padre e che possa essere negativo per la carità ecclesiale», a «evitare la pretesa di un magistero superiore» a quello del Papa, e di «non proporre la Fraternità in contrapposizione alla Chiesa». Infine, l’impegno «a dimostrare la volontà di agire onestamente nella piena carità ecclesiale e nel rispetto dell’autorità del Vicario di Cristo».

mercoledì 21 gennaio 2009

Il padrone di casa



In libreria il romanzo “Il padrone di casa” di Alberto Samonà

Lo studio di sé è il filo conduttore de Il padrone di casa, romanzo epistolare del giornalista Alberto Samonà in libreria per le edizioni Robin di Roma.
La narrazione del libro si svolge secondo una scansione temporale di dodici mesi, contrassegnati, ciascuno, da una lettera che il protagonista del libro, un uomo sui quarant’anni, scrive ad un’amica lontana.
L’uomo cerca risposte e pone le proprie domande alla donna, ma la destinataria delle lettere resta in silenzio, mentre un ritmo circolare, evidenziato dalla mancanza di una risposta, contrassegna lo scorrere del tempo.
Il protagonista è “dipinto” dall’autore come un ricercatore addentro agli studi esoterici con un passato di militante di destra, che, però, ad un certo punto, complice una causa esteriore, si rende conto di come abbia beatamente trascorso tutta la propria vita nel sonno, nell’appagamento dei propri ego, ingigantiti anche dagli stessi studi da lui stesso svolti, nonostante lo scopo di questi fosse, in origine ben diverso e cioè, un fine di “liberazione”. Da qui, una “presa in carico” della propria situazione e il tentativo di uscirne, documentato dalle dodici lettere che il protagonista scrive all’amica, apparentemente semplici resoconti di vita ordinaria, in realtà tappe di un simbolico intimo viaggio in se stesso, o comunque, attività preparatorie al compimento del viaggio.
La donna resta muta per tutto il libro, fino a quando, forse, si può incominciare a sentire la voce del “padrone di casa”, il solo in grado di mettere ordine fra le mille altre voci che convivono nell’autore delle lettere.
Non mancano riferimenti a Evola e Guenòn e pagine interamente ispirate al pensiero tradizionale. Evidente anche l’influenza dell’insegnamento di Gurdjieff, nonostante l’autore, per rispetto e discrezione, non citi mai la fonte: un modo elegante che scongiura il rischio di appesantire la lettura.
Alla lettura lineare che lo fa somigliare ad un ordinario libro di narrativa, però, se ne aggiunge una meno evidente, “esoterica”, perché nelle pagine del romanzo è come se vi fossero molteplici segnali di un universo nascosto, che non appare immediatamente, ma che si disvela solo a chi sa guardare oltre, secondo il metodo tradizionale della conoscenza sintetica e analogica.

Alberto Samonà, Il padrone di casa, Edizioni Robin (Roma), pagg. 156, prezzo 12 euro.



Alberto Samonà, autore e giornalista siciliano, ha scritto diversi libri a contenuto simbolico, fra cui Le colonne dell'eterno presente (ila-palma 2001), La Tradizione del Sé (Atanòr, 2003), Riti pasquali (AA.VV. Ac-Mirror 2005), Tarocchi (AA. VV. Ac-Mirror, 2005). Dal suo racconto intitolato La bambina all’Alloro, il cantastorie iracheno Yousif Latif Jaralla ha tratto lo spettacolo teatrale Le orme delle nuvole. È componente della giuria nazionale del concorso letterario “Subway letteratura”.

giovedì 15 gennaio 2009

Santa Teresa d'Avila









di Pietrangelo Buttafuoco











Formidabile e terribile fu santa Teresa d’Avila. Mistica – scrittrice feconda, preda di frequenti deliri estatici – la santa, “inconfutabilmente isterica”, fu un antifemminuccia e perciò donna tenace e rude. Fu potente e austera ma sempre in balia d’irrefrenabili esaltazioni. Fondatrice dell’ordine delle carmelitane scalze i cui conventi ancora oggi ¬– nella Spagna dei desideri e dei genitori A e B – narrano l’età profonda della Controriforma, Teresa fu donna che fece della sua vita terrena un inno al Dio della fede universale cattolica.Un sorprendente racconto di lei, specie in tempi in cui la religione gode di cattiva comunicazione, ce lo porge Julia Kristeva in “Teresa, mon amour”. Nel sottotitolo si legge: “Santa Teresa d’Avila, l’estasi come un romanzo”, è un corposo volume tradotto da Alessia Piovanello ed edito in Italia da Donzelli (euro 35,00). Santità e misticismo sono interpretati in chiave psicanalitica dalla scrittrice, in modalità in vero non sempre convincenti, quasi la mistica Teresa recalcitrasse ad essere imbrigliata in categorie che non le appartengono. Le tante citazioni riportate nell’opera, tratte dagli scritti della santa, bastano a spazzar via le troppe sovrastrutture interpretative con le quali la Kristeva che premette di non essere credente, prova spiegare il cammino verso la santità di Teresa, che entrerà in convitto nel piccolo collegio agostiniano di Santa Maria de Gracia, ad Avila, a sedici anni. In età più che matura per l’epoca e per una creatura chiamata alla santità.Teresa de Ahumada de Cepeda, era nata il 28 marzo 1515 ad Avila, in Spagna. La cattolicissima Spagna nel 1500 manda agli antipodi la propria flotta per arricchire le casse dello Stato, ma teme le conseguenze dello scisma luterano che sta insanguinando l’Europa nello scontro fratricida tra cattolici e protestanti che incrinerà per sempre il segno medievale della cristianità universale. Teresa è la terzogenita di don Alonso Sanchez de Cepeda e dona Beatriz de Ahumada. La bambina porta il nome della nonna materna e della bisnonna paterna. Il nonno paterno, Juan Sanchez vive a Toledo ed è un “marrano”, un ebreo costretto a convertirsi al cattolicesimo, obbligato a indossare lo scapolare giallo che indicava i convertiti che in segreto continuavano a professare la loro antica religione. In realtà il ricco mercante è creditore di quegli stessi suoi concittadini che lo scherniscono, e l’umiliazione da lui patita, sembra più che altro formale, se per molto meno l’Inquisizione soleva comminare pene ben più terribili. Il padre di Teresa ha già alle spalle un primo matrimonio e due figli. Rimasto vedovo, sposa l’elegante e delicata Beatriz, donna colta e discreta che amava leggere con la bambina Teresa romanzi cortesi e storie di santi. Beatriz partorirà dieci figli e, sfinita dalle gravidanze, morirà a trentatrè anni. Teresa ha tredici anni e deve imparare ad occuparsi della numerosa famiglia. La fortuna accumulata dal nonno, è stata dilapidata dal padre: vivere da hidalgo è molto più dispendioso che vendere sete. Tutta la vita Teresa avrà in mente due cose: la honra paterna, l’onore, a cui tutto bisogna sacrificare pur di mantenerlo intatto e la triste fine di dona Beatriz: nulla dura per sempre, neanche l’amore terreno. L’hidalgo è il nobile che serve il re ed ha il privilegio di non pagare le tasse. I de Cepeda finiscono in tribunale per provare il loro status di hidalgos. Allo stesso modo, la scelta religiosa è anche una fuga “dallo star soggette ad un uomo” come lei stessa scriverà. Perfino le regine non sfuggono al destino femminile di partorire al servizio dei disegni politici della monarchia. Teresa riuscirà ad affrancarsi dal destino che il suo sesso le ha disegnato restando figlia per sempre. Non è facile fuggire dal mondo. Teresa è una giovane donna che conosce le lusinghe dell’amore. Trascorre da un ricevimento all’altro, partecipa alle feste in onore della regina Isabella, e di Carlo V quando Sua Maestà si ferma ad Avila a visitare la città. Eppure bisogna essere capaci di sfidare il mondo, di esiliarsi al di là di quel che sembra tutto, ed invece è niente. “Quanta cura ponevo per non perdere quello che credevo fosse l’onore del mondo! Nel cercarlo ponevo, da persona vana somma cura”. E poi prende la sua decisione, tiene testa al padre, uomo di fede ma che non vuol sentir parlare di convento. Riesce a convincerlo, ma deve sostenere una lotta durissima con se stessa. “Quando uscii dalla casa di mio padre, provai tanto dolore che non credo di sentirlo maggiore in punto di morte”. Diventare monaca, entrare nel claustro è, forse, anche una forma di risarcimento alla sfortunata dona Beatriz, poiché in spagnolo l’utero si chiama claustro materno. Diventare monaca è pareggiare i conti del nonno marrano e del padre che soleva leggere i libri sacri alla famiglia riunita. Il rapporto di Teresa con Dio è voluttuoso, ne partecipa il corpo che sposa la Passione di Cristo facendola sua, è la realizzazione del vero onore, l’attaccamento al Dio della Croce. E’ attraversata dalla passione e si identifica con questa sofferenza. Consapevole del raro privilegio che la sua condizione le offre, rivive come beatitudine tutta la sofferenza della Croce con i flagelli, le spine e i chiodi. Descrive i suoi rapimenti – l’uscita dalla propria condizione umana, sensibile – per diventare onda di un oceano che l’avvolge e la travolge. La figura del Dio-uomo, introdotta dal messaggio evangelico, rompe il rapporto tradizionale tra la divinità trascendente e l’uomo, separato dall’abisso della finitezza. L’orante si rivolge ad un Dio, l’Iddio infinitamente lontano dall’umanità mortale ferita dal peccato di Adamo. La rivelazione operata dal Cristo, congiunge nella sua umana persona ciò che da sempre era separato, l’umano e il divino, la trascendenza e l’immanenza, il tempo e l’eternità. Tutto nella sofferenza vissuta dal Dio incarnato. Teresa nel suo rapimento estatico, sperimenta letteralmente l’uscita da sé, come vera conoscenza del proprio io. Conoscersi perdendosi nell’amore dell’Altro. Il cammino dell’uomo alla ricerca della propria coscienza può avere molti inizi e infinite direzioni. Se la civiltà cristiana affonda le proprie radici nella filosofia greca, è Socrate l’iniziatore del dialogo che scopre l’interiorità dell’uomo come sua essenza, ed è Cartesio che la razionalizza nell’intuizione del “Cogito” come pensiero fondante dell’esistenza umana. Teresa, appena prima di Cartesio, fonda l’esistenza di sé fuori da sé. Si potrebbe definire, il suo, il terzo e sublime livello di conoscenza teorizzato da Spinoza, dopo quello fallace dei sensi e quello razionale dell’intelletto che procede per dimostrazioni. Abbandonate le plaghe del pensiero razionale che avvolge il mondo dell’esperienza nelle categorie della ragione, si parte per un’avventura magnifica che trascende l’esistenza individuale per trasportarla nei cieli dell’infinito Essere. Kristeva interpreta il rapimento mistico di Teresa come un trasfert freudiano che realizza la conoscenza di sé nel legame con l’altro, in questo caso con Dio. E’ un mistero ineffabile. Mistero è termine greco, deriva da muo, stare chiuso, rinserrato, coltivare la propria interiorità inaccessibile e sprofondare nell’Altro. L’unione mistica è tema che si perde nel tempo, si nutre della filosofia medievale, la quale ha a sua volta un grande debito con la tradizione neoplatonica del perdersi nell’Uno-Bene e risale da questa al Platone profeta che fonda i cieli della metafisica abitati dai sommi archetipi, le divine idee del Bello, del Bene, del Giusto e approda nella contemplazione aristotelica del Divino come intelletto separato che attrae l’intero cosmo con la purezza intangibile della sua perfezione. La presenza del Cristo nell’Eucarestia, permette al credente l’inaudito privilegio di incorporare Dio. Mangiare del corpo di questo Dio incarnatosi per riscattare l’umanità. Com-unione. Quanto più la Chiesa trionfa nel tempo umano, si radica nelle abitudini dei popoli, scandisce i momenti centrali della vita dell’uomo, la nascita purificata nel battesimo, il matrimonio, sacramento dell’unione indissolubile tra l’uomo e la donna e la morte celebrata nel rito funebre dalla comunità, tanto più perde il mistero. La Chiesa si apre al mondo, conquista proseliti, diviene corpo sociale e perde il mistero. Il conflitto tra Lutero ed Erasmo tra Riforma e Controriforma, riguarda anche questa questione. Il monaco agostiniano aborre il rapimento mistico che considera un rigurgito di stregoneria, un cedimento alla lussuria carnale ed esalta il rigore morale che deve tenere a freno le tentazioni della carne, i cattolici della Controriforma invece, concedono dei varchi all’esito mistico della fede. Teresa e le sue visioni si inseriscono in questo contesto. Teresa è la santa della Controriforma. Prima che trionfi la razionalizzazione dell’esistente e la celebrazione del metodo scientifico di Galileo, Teresa fa in tempo ad innalzare un inno al desiderio del corpo, freudianamente sublimato nell’unione con il corpo di Cristo. Il barocco è il trionfo della sensualità nell’arte, del corpo esibito, delle chiese stracolme di smalti e ori, della ricchezza rigogliosa delle forme, che esprime in ogni dove il trionfo della creazione. Il secolo dei Lumi, il ‘700 francese, spazzerà via questo misticismo considerato una debolezza da esteti, La filosofia di Kant che esalta la fede illuminista nella ragione, farà della legge morale un imperativi categorico che ogni uomo deve imporre a se stesso. Un abisso separa il filosofo di Koninsberg dalla santa di Avila anche se entrambi appaiono lontani dalla decadenza morale e spirituale di oggi, ma il genitore A e il genitore B dell’attuale Spagna e perfino Pedro Almodovar sono figli di Kant, non certo della sensualissima ed eroticissima Teresa. Il tentativo del primo di imbrigliare l’umanità nella ferrea rete della legge morale, non pare aver sortito particolare successo, mentre la fuga di Teresa dal mondo, “Conosciti in Me” appare una follia incomprensibile ai più. Agli occhi dello psicanalista, il corpo femminile è istintivamente pronto all’abbandono perché è dimora del desiderio, essendo concepito come un unico organo sessuale inebriato dal desiderio dell’oggetto d’amore, che nel trasfert erotico si sottrae all’infinito, e si sublima nell’esperienza mistica. Hegel trova nei sermoni di mastro Eckhart, la descrizione dell’esperienza umana dell’abbandono nel “Grund”, l’abisso divino in cui perdersi per ritrovare autenticamente se stessi. L’angoscia della separazione è del resto un trauma dal quale secondo Freud, l’uomo non guarisce mai, per tutta la vita. Espulso dall’utero materno, per tutta la sua esistenza cercherà di sanare questa frattura, ritrovando la Madre. Gli esiti mistici diventano secondo questa lettura una modalità di ricomporre la lacerazione immergendosi nell’Altro che può essere inteso come Madre e Padre, un femminile che coincide con il maschile, un annientamento delle individualità e dunque un superamento della originaria separazione. Si toglie la nascita, morendo d’amore, immergendosi panicamente e divenendo corpo mistico. La grande differenza è che l’esperienza analitica, non ha esiti trascendenti, mentre la fede è ovviamente al centro dell’incontro con Dio. Per la psicanalisi dunque, l’esperienza mistica è solo un rifugio, un tentativo di placare il bisogno di protezione ricongiungendosi alla Madre, la fine della tensione, il raggiungimento della quiete, indicibile e incomprensibile alla logica ferrea della razionalità. Si tratterebbe di liberare le pulsioni dell’Es dalla censura del Super-Io, soddisfacendole pienamente. E’ il dottor Charcot con cui il giovane Freud intraprende la sua carriera medica che definisce le sante “inconfutabili isteriche”. Fuori da una lettura psicanalitica e al riparo da essa, il furore mistico di Teresa riesce ad incamminarsi lungo lo stretto sentiero dell’ortodossia religiosa, sfuggendo al sospetto di eresia, e rafforzando la Chiesa cattolica in quegli esiti sovrannaturali di cui il popolo dei credenti è sempre affamato. Riuscendo anche a testimoniare questa esperienza estatica nella scrittura delle sue opere, e concretizzando nella fondazione dei conventi l’ansia di Dio che la divora. E’ capace Teresa al contempo di descrivere i suoi rapimenti, di parteciparvi con il corpo soggetto a paralisi, contorcimenti, crisi epilettiche, attacchi di anoressia e bulimia, digiuni feroci, penitenze e flagellazioni, e al contempo gestire la delicata questione della rifondazione di un Ordine, che richiede tatto, diplomazia, ma anche tenacia, ostinazione e durezza. L’originalità della sua esistenza è riuscire a percorrere un’esperienza – quella estatica, assolutamente individuale – e poi a costruire una comunità che si apre al mondo: non senza avere sfidato e vinto i sospetti dell’Inquisizione di avere a che fare con una donnetta esaltata.Teresa prende l’abito il 2 novembre 1536. Trascorre trent’anni della sua vita nel convento dell’Incarnazione, un edificio in cui “d’inverno la neve cadeva sui breviari e d’estate la canicola arroventa i muri”. Legge molto, scrive molto, descrive nei dettagli le sue esperienze di elevazione”. Alcune volte perdo quasi del tutto le pulsazioni, le mani sono così rigide che non posso congiungerle…”. Il patimento del corpo permette all’anima di godere la gioia ineffabile dell’incontro con l’Altro. Patimenti del corpo, sensualità femminile, arte letteraria, distacco dal mondo. “Dio mi rende così estranea dal mondo che mi pare che nessuna creatura sulla terra possa darmi compagnia”. Si tratta di passare la notte in un cattivo albergo. Addirittura Teresa teme che occuparsi del prossimo sia una forma di vanità, una ricerca di onori. Teresa si mette in ascolto di Dio. “Un giorno, dopo la comunione, Sua Maestà mi ordinò con fermezza di fare quanto era possibile “. Dio chiede a Teresa di prodigarsi per una riforma del Carmelo che riporti l’ordine alla originaria Regola di povertà e clausura. Non sarà facile vincere le resistenze degli altri ordini, geuiti e domenicani, oltre che del Carmelo stesso. Troppi equilibri da bilanciare, quasi nessuna rendita da investire, la suscettibilità delle consorelle non deve essere urtata. Ma Teresa procede spedita, forte della presenza di Dio nel suo cuore, sa che qualunque difficoltà può essere superata. “Mi sembra di non essere io a parlare, a volere, a vivere, ma che vi sia in me qualcuno che mi guida e mi dà forza”. Il primo convento nasce nell’agosto del 1561, intitolato a San Giuseppe. Teresa progetta la casa, disegna i piani, dipinge le pareti.Un’inconfutabile isterica: nei vent’anni che gli restano da vivere fonderà altri conventi. La Regola è rigida, le monache devono vivere del loro lavoro e non possedere nulla. Povertà, clausura, nessuno svago che possa allontanare la mente dal pensiero di Dio. E’ il definitivo distacco dagli agi famigliari, dal ricordo del nonno materno che aveva fatto fortuna sul commercio del superfluo, dagli onori mondani, dalla vita legata allo svago effimero. Sa anche essere dura con le consorelle, non sopporta quelle che si lamentano, le malate, le storpie. Non accetta il lato sdolcinato della femminilità, arriva a dichiarare che vorrebbe che le sue figlie in nulla si mostrassero donne ma uomini forti. Le fondazioni di Teresa di Gesù puntellano la Spagna che la suora percorre in lungo e in largo: Medina del Campo, Valladolid, Toledo, Salamanca, Siviglia, Granada. Teresa si fermerà solo per morire. Muore il 4 ottobre 1582 ad Alba de Tormes. Per vent’anni più di millecinquecento persone hanno testimoniato nel processo di beatificazione prima e di canonizzazione poi. Nel 1970 Paolo VI la proclamerà prima donna ‘dottore della chiesa universale’ insieme a Caterina da Siena. La sovraccoperta del libro di Kristeva riporta la splendida immagine della “Transverberazione di santa Teresa” di Lorenzo Bernini che si trova a Roma nella chiesa di Santa Maria della Vittoria. Teresa ha gli occhi e la bocca socchiusi, il volto riverso all’indietro, lo sguardo vigile eppure distante, come perduto. La fede di Teresa ha conosciuto la gioia mistica, estatica, della beatitudine ineffabile che si eleva oltre l’umano dire. Sarà seppellita in una nicchia della cappella dei duchi di Alba sotto un cumulo di terra, calce e pietre. Nel ricevere l’estrema unzione ripete “In fin dei conti, Signore, sono figlia della Chiesa”. Teresa di Gesù lascia questo mondo per risiedere nell’Altro, eternamente. Estaticamente. Esteticamente e inconfutabilmente.

domenica 11 gennaio 2009

L'oratorio di Santa Sofia dei Tavernieri

di Gianluca Pipitò



L'oratorio di Santa Sofia dei Tavernieri si trova nel cuore della Palermo Antica ed esattamente in Corso Vittorio Emanuele all'altezza di Palazzo Vannuci, dietro la piazza della Vucciria.Proprio da Palazzo Vannucci, attraverso un arco detto appunto di Santa Sofia, si entra in una piazzetta che prende il nome dalla Chiesa in questione.
La storia dell'oratorio si svolge nel vecchio quartiere della Loggia che era il punto di riferimento delle "Nazioni Estere", dette nazioni provenivano da tutta Italia per aprire delle "Logge" per la vendita delle loro mercanzie ed erano situate vicino al Porto, inoltre, portavano con se le loro tradizioni ed i loro "Santi Protettori" a cui innalzavano Chiese ed Oratori.

La Maestranza che ha costruito la Chiesa di Santa Sofia (protettrice dei Milanesi insieme a San Carlo Borromeo) era quella dei Tavernieri ed era di origine Lombarda. Come tutte le Maestranze anche quella dei Tavernieri si riunisce, sin dal 1545, in "Consolato" da cui nasce la Confraternita, che ha comunque autonomia decisionale rispetto al Consolato. All'inizio la Confraternita non aveva una Chiesa propria ma era ospite in una Cappella presso la Chiesa del SS. Crocifisso all'Albergheria dove nel mese di ottobre festeggiava la Santa. Nel febbraio 1585, da Antonio Barone, i rettori della Confraternita ed i Consglieri del Consolato acquistarono alcuni magazzini ed iniziarono nel 1589 la costruzione dell'oratorio che venne completato nel 1590, successivamente nel 1606 la fabbrica venne ampliata acquistando, sempre da Antonio Barone, alcune case dietro la Chiesetta. Dopo l'arrivo di Garibaldi l'Oratorio passa nel Demanio dello Stato ed a tutt'oggi fa parte degli Immobili gestiti da Fondo Edifici per il Culto del Ministero dell'Interno. Secondo alcuni studiosi si pensa che l'Oratorio sia in rovina per via dei Bombardamenti dell'ultima guerra, ma da una ricerca approfondita non risulta MAI nominata quale chiesa pericolante, da puntellare o altro ed è strano se si tiene in considerazione il fatto che la Soprintendenza ai Beni Culturali ed altri Enti anche ecclesiastici hanno fatto un censimento certosino delle Chiese e dei monumenti che hanno subito qualsiasi danno. Comunque la Confraternita, oggi non più attiva, fino al 1939 usufruiva dell'Oratorio ed in questa Chiesa è nata l'unica confraternita al Mondo dedicata a Maria SS. Addolorata degli Invalidi e Mutilati di Guerra, di cui io sono il segretario. La struttura è in pessime condizioni, l'antico portone in legno è stato sostituito da uno in acciaio, le pareti sono pericolanti ed il bel portale è in pieno degrado, all'interno la cosa è ancora peggio, infatti, vi sono presenti dei gradevoli stucchi ma fortemente degradati, la gente, senza scrupolo ed ignorante, ha aperto delle finestre sui muri ed ha costruito un giardino all'interno della Chiesa e l'ex locale sacrestia è diventato un garage per auto. La cosa assurda è che il F.E.C. preferisce vendere questa testimonianza di armonia fra le nazioni estere e la Capitale della Sicilia (Milano e Palermo) per levarsi un peso e, magari, concedere un pezzo di storia della Lombardia e di Palermo a qualcuno che non sa fare altro che aprire PUB e chissà che cosa.Sò che c'è un SERIO interessamento della Soprintendenza BB.CC. per ricostruirla, ma a questo punto non è meglio restaurarla e darla in comodato d'uso alla Confraternita che garantisce la manutenzione ordinaria?


A Voi l'ardua sentenza.

Elenco blog personale