martedì 14 ottobre 2008

COMPAGNO CAMERATA – PAROLA DI GUIDO PAGLIA (OGGI AL VERTICE RAI): “NERI E ROSSI, STAVAMO DALLA STESSA PARTE. SI CONTESTAVA LA SCUOLA AUTORITARIA.




Luciano Gulli per "Il Giornale"



«A un certo punto si gira uno smilzo - era Roberto Gaita, uno di sinistra, poi giornalista al Messaggero - e fa: "Compagni! Attacchiamo!". "Compagni? Ahò, ma che compagni! Qua siamo tutti camerati!" gli rispondono tre o quattro che gli stavano intorno».
Guido Paglia, uno di «quelli della foto», se la ricorda bene, quella giornata. Roma, Valle Giulia, primo marzo 1968, facoltà di Architettura. Va in scena la madre di tutte le battaglie fra studenti e poliziotti in Italia. Roba di sinistra? Mah, si e no. Cioè: più no che si. Anzi, decisamente no, stando alla foto che il Giornale ha pubblicato ieri, a corredo della presentazione di Il sangue e la celtica, libro di Nicola Rao sullo stragismo nero.
Paglia, all'epoca ventunenne, è lì, giù dalla scalinata di Valle Giulia, il petto in fuori, all'attacco come sempre. Questione di carattere. Camerata di ferro, uomo d'ordine (un tempo, si ricorderà, questi erano insulti sanguinosi che al portatore dell'ingiuria potevano costare, e spesso sono costati, qualche sprangata sul cranio e qualche revolverata) Guido Paglia è un giornalista di lungo corso. Vicedirettore e capo della redazione romana di questo giornale, l'ex «fascista» è da sei anni direttore della Comunicazione e delle Relazioni esterne della Rai. Da New York, dov'è per la quarta edizione della Settimana della Fiction, quei fatti di quarant'anni fa gli devono sembrare lontanissimi. Ma è solo un momento. Il film della memoria - roba vera, altro che fiction - è pronto a scorrere. Si abbassino le luci in sala.
«È vero. La contiguità fra destra e sinistra c'è stata. E quella foto che avete pubblicato lo dimostra benissimo. Perché il Sessantotto, non è inutile ricordarlo ogni tanto, era nato come protesta corale di tutto il mondo studentesco nei confronti di una scuola e di un'università vecchia, asfittica, dominata dai baroni. Ma quella contiguità durò lo spazio di un mattino».
Una protesta contro il principio di autorità, dunque. Però suona bizzarro. La destra contro l'autorità...«Contro l'autoritarismo, direi piuttosto, che è la degenerazione del principio di autorità. Ecco, quello è l'obiettivo che in una prima fase ci ritrova tutti uniti, destra e sinistra. Prima che la sinistra si spinga sulla strada della contestazione globale: dall'università, alla famiglia, alla società. In quei giorni noi occupavamo le facoltà tradizionalmente di destra: Giurisprudenza, Scienze politiche, Economia e Commercio, Ingegneria, Farmacia...».
I rossi stavano invece a Lettere e Filosofia, a Chimica e Fisica, a Matematica... Quando finisce l'entente cordiale con la sinistra?«Quindici giorni dopo. Incombono le elezioni politiche, e il Movimento sociale non può tollerare che i suoi giovani occupino le università. Cercano di coinvolgerci, ma quando vedono che non c'è niente da fare mobilitano quelli che all'epoca si chiamavano Volontari Nazionali: operai, essenzialmente, la base missina popolare. Arrivano in qualche centinaio, capeggiati da Giulio Caradonna, e vanno allo scontro con quelli di Lettere».
E si trovano di fronte, fra gli altri, i «pacciardiani» di Primula Goliardica. Fra loro ci sono Lamberto Rock, Ezio Maria Dantini, Franco Papitto, che da grande diventerà corrispondente di Repubblica da Bruxelles...«Esatto. I missini, respinti, si chiusero a Giurisprudenza. È lì che Giorgio Almirante venne circondato da quattro, cinque persone e menato di brutto. Be', mi buttai io, nella mischia, per salvarlo. E chi c'era con me? Un "cinese", come chiamavamo allora i comunisti. Si chiamava Alfredo Cesarini. Ma prima di essere un "cinese" era amico mio».
La destra extraparlamentare nasce in quei giorni, dal ripudio del Msi di quanti non avevano obbedito agli ordini schierandosi contro il comune nemico. Il partito di Almirante non poteva accettare che si fraternizzasse con la sinistra.«Fu il grande errore strategico del Msi. Loro incarnavano il partito d'ordine, la quintessenza del perbenismo, l'anima reazionaria anticomunista. Noi giovani eravamo i romantici movimentisti, rivoluzionari. La Repubblica Sociale era il nostro punto di riferimento. Fu un errore, quello del Movimento sociale, che il Pci, attento a gestire i rapporti con le frange giovanili che gli erano ideologicamente omogenee, si guardò bene dal commettere».
Poi il feeling dei primi giorni, con i «compagni», si spezzò.«E noi di destra, in blocco, diventammo per sempre sporchi, brutti e cattivi».
Per anni, ogni volta che si è scritto e parlato di Sessantotto, di proteste studentesche, si è sempre parlato della sinistra. La sinistra ha fatto, la sinistra ha detto...«Noi non avevamo diritto di cittadinanza. È come se non fossimo neppure esistiti».
Terrorismo di destra e terrorismo di sinistra. Le Brigate Rosse, Prima Linea avevano almeno la prospettiva, allucinata, di mobilitare le masse operaie. Ma i Nar, gli spostati di Ordine nuovo?«Quello di destra fu un modo di reagire alla repressione delle forze di polizia e della magistratura. Ma anche una reazione alla caccia aperta contro "il fascista". Finì per essere un modo di attorcigliarsi su se stessi».
Anche la sinistra, ultimamente, si è convinta che con la strage di Bologna i "fascisti" non c'entrano. Se fosse così anche per le altre?«Mah, che ci sia la responsabilità di alcune frange, spinte all'esasperazione, a me pare possibile. Resta il fatto che di nessuna strage, sotto il profilo giudiziario, si può dire: ecco, sono stati loro».
Tu hai mai corso il pericolo di finire in una banda armata di estrema destra?«Sì. Mi chiamarono in causa per la strage di piazza Fontana. Dovevo essere io il Guido, giornalista di destra, di cui parlava Ventura. Se non avessi resistito alla tentazione di scappare, sì, sarei passato dall'altra parte, per combattere l'ingiustizia che stavo subendo. Trovai invece un magistrato perbene, onesto. Era un uomo di sinistra. Si chiama Gerardo D'Ambrosio».

IO MAFIO, TU MUORI – DIMMI COME PARLI E TI DIRÒ COME SPARI - BUTTAFUOCO COMMENTA IL LIBRO DI BOLZONI SUL LINGUAGGIO MAFIOSO



Pietrangelo Buttafuoco per "Il Foglio"


"Ecco, lo dico: il danno". In principio era il Verbo, alla fine ci sarà la Rivelazione ma in mezzo - nel frattempo - c'è la Mafia con le sue parole d'onore. Saranno i filologi i poliziotti che metteranno capo al crimine organizzato. E ce ne vorranno di esperti in lingua cinese, russa ed altri ancora, conoscitori dell'idioma giudaico, per persuadersene di mafia cinese, russa ed ebraica perché l'ontologia del sangue criminale è tutta svelata nel linguaggio. Dimmi come parli e si capirà come spari. Si capisce sempre come si spara perché la mafia, infine, di qualunque latitudine sia, già ontologicamente prevede un unico possibile sbaglio: quello di sbagliare a parlare.
In principio era il Verbo, alla fine ci sarà la Rivelazione ma in questo frattempo, di quella siciliana, intesa come Mafia, tutta la scienza occorrente di segni, codici e idiomi è già codificata e un libro degno della Schola Palatina di Carlomagno è, appunto, "Parole d'onore" di Attilio Bolzoni (Bur, euro 12,00). Il sottotitolo è già un ghiotto antipasto: "Le voci di Cosa Nostra. Il gergo dei suoi uomini. Fra riti e tragedie, mezzo secolo di mafia nella parlata dei mafiosi".
"Ecco, lo dico: il danno". Inutile dire che fior di filologo s'è rivelato Bolzoni, giornalista di Repubblica, coautore con Giuseppe D'Avanzo dello strepitoso libro "Il capo dei capi", testo base dell'ancora più magnifico film con Claudio Gioè nei panni di Totò Riina. Un filologo armato di bisturi nella carne viva di un'aberrazione qual è il dominio dell'uomo sull'uomo, questo è Bolzoni. Un filologo mai compiaciuto ma neppure - e non vorremmo urtarne la sensibilità - fanatizzato dalle malie dell'antimafia declamatoria. Tutto, infatti, è catalogo. Mai un sopracciò moralistico, mai un acuto retorico né un climax di quel genere civil-legalitario che spesso - alla fine della fiera - butta molta più gente tra le braccia della mafia di quanti, di mafiosi, ne dovrebbe buttare in galera.
"Ecco, lo dico: il danno". In principio c'è quel verbo, mafiare, e siccome non c'è verso di penetrare il mistero del Male privo di pietà, se non con il lavoro certosino dell'amanuense che scava dentro le parole, questo nuovo saggio di Bolzoni è come un manuale, un libro di scuola a metà tra il dizionario e un codice d'ermeneutica per afferrare il bandolo aggrovigliato del silenzio criminale. A proposito di chirurgia, commozione e filologia, antideclamatorio e perciò efficace nel fare capire che cos'è veramente la Mafia, è il capitolo "Non siamo stati noi".
Un uomo su una Kawasaki chiama un bambino di undici anni, Claudio Domino, quello si avvicina e con un colpo di pistola alla fronte viene ucciso. Sono le ventuno del 7 ottobre 1986. A Palermo nessuno sa intendere il perché di un omicidio così brutale. L'indomani si apre il dibattimento in Corte d'assise del maxiprocesso ai boss mafiosi, Giovanni Bontade chiede la parola al presidente Afonso Giordano: "Signora Presidente", dice il boss, "anche noi abbiamo figli... noi non c'entriamo niente con questo omicidio, non siamo stati noi, è un delitto che ci offende e ci offende ancor di più il tentativo della stampa di attribuirne la responsabilità agli uomini processati in questa aula...".
"Ecco, lo dico: il danno". Riportandoci al centro di questa scena Bolzoni - con gli attrezzi della chirurgia filologica - ci svela il senso di un segno inedito e inaudito: "E' la prima volta che un mafioso siciliano pronuncia quella parola: noi". Come in tutte le cose di Sicilia dove tutto è mistero, allo stesso modo (come sempre), tutto finisce in verità. L'autenticità degli eventi, infatti, avrà la sua rivelazione in un preciso fatto: un rosticciere, Salvatore Graffagnino, sparisce.
Forse quello che manca in Sicilia è la sentenza di Stato, ma le cose autentiche ci sono ed è con i fatti che il rosticciere viene levato di mezzo dalla mafia. E' lui, infatti, il mandante dell'uccisione del bambino. Una storia terribile: era l'amante della madre del bimbo. E il piccolo Claudio, che li aveva visti insieme, viene ammazzato come un vitello: con un colpo in fronte. "Una storia infame" scrive Bolzoni. Una storia che attende ancora il terzo atto. Un anno dopo viene ucciso Giovanni Bontade. Non certo per una faida da ricondurre al rosticciere. Ma per aver fatto quel comunicato al processo. Per aver pronunciato la parola "noi".
"Ecco, lo dico: il danno". Il noi non esiste nella mafia. Il noi è una chiamata di correo. E tutti noi - noi che nella dolente terra di Sicilia ci rinfreschiamo la bocca dell'anima e quella della coscienza ¬- reclamando la redenzione facciamo sempre i conti con l'ironia, anche involontaria. A noi può sempre capitare di parlare con la persona sbagliata, può capitare di baciare male e di parlare al telefono tra mille fraintendimenti di lingua e linguaggio. Con tutti quelli che circolano intorno a "noi", insomma, come possiamo capacitarcene?
E se possiamo portare ad esempio un aneddoto, raccontiamo di Vincenzo Pirrotta, grandissimo interprete di Euripide, l'autore de "La ballata delle balate", attore potentissimo e nativo in quel di Partitico, luogo principe di "noi", adesso alle prese con la sublime poesia di Ibn Hamdis. Pirrotta racconta sempre di quando suo padre lo subissò di legnate a causa di certe frequentazioni del ‘noi': "E meno male", rivela adesso, "altrimenti, altro che Ibn Hamdis, di sicuro nel 41bis sarei".
"Ecco, lo dico: il danno". I "noi" hanno un solo luogo perché i tanti luoghi della pluralità procurano confusione, caos, pazzia e Bolzoni che nel suo procedere da clinico della parola ha avuto il genio di fare esperimenti di filologia dal vivo, con Tanuzzo Riina nientemeno, il fratello del più noto Capo dei Capi, lavorando di fino gli ha strappato una sentenza degna di Ciampa lo scrivano, l'eroe pirandelliano del Berretto a Sonagli. E dunque, tenete a mente la scena. Siamo a Corleone. Bolzoni, bravissimo, incalza Tanuzzo a proposito di Tommaso Buscetta, il pentito attraverso cui Giovanni Falcone con Gianni De Gennaro e la Dia sfasciarono Cosa Nostra.
Tenete a mente la scena dunque, la piazza di Corleone (il paese che ha dato il nome a Don Vito, il Padrino). E tenete a mente il rovinio di domande: e chi è, chi non è e cosa ne pensa vossia di Buscetta? Ebbene, giudichi il lettore se non ci troviamo di fronte ad un Ciampa redivivo. "Buscetta ha viaggiato, è stato in Continente, a Milano e a Torino. E' andato a New York. E poi in Brasile".
"Ecco, lo dico: il danno". Tanuzzo tira la somma sotto a tanta confusione di geografia, inghiotte l'intero mappamondo in un sospiro e sussurra: "Ha visto il mondo e gli è scoppiato il cervello". Un vero colpo di genio. E tanto torto, in coscienza, non gli si può dare a Tanuzzo. Con parole "dell'altro mondo", infatti, fa capire come l'archetipo rurale arriva dove la modernità cosmopolita arranca. Per la descrizione di questo cervello che si spappola tra femmine carioca e gangster di Nuova York, manco ottanta sedute di Terapie & Pallottole potrebbero bastare e invece Tanuzzo c'indovina: potremmo adesso avventurarci nella psichiatria? Atteniamoci alla filologia piuttosto.
"Ecco, lo dico: il danno". Il libro di Bulzoni è naturalmente frutto di un lavoro giornalistico di altissimo livello ma pur trattando di cronaca, sangue e misteriose trame, proprio in virtù del linguaggio, non manca di assolvere a ciò che dai tempi dei Beati Paoli ormai, la Mafia fa: si fa leggere con piacere. I personaggi ci sono tutti, l'intera scala dei sentimenti si squaderna sulla pelle di una storia orba di lieto fine, il male dilaga tra infiniti reticoli di menti raffinatissime e le parole d'onore poi, sono un impasto di fango e ingegno, un'epica geometricamente perfetta. E maligna.
"Ecco, lo dico: il danno". Quel verbo del principiare a mafiare è un magnete irresistibile per il grande pubblico, una manna per la scena internazionale tanto è vero che quel confine tra vero, verosimile e finzione viene scavalcato da Bolzoni mettendo a pari merito, tra i padrini, quello cinematografico di Francis Ford Coppola. Ed è davvero improba cosa in tema di mafiata distinguere tra bugiarderia e verbali d'interrogatorio, tanto è potente questo linguaggio fatto di gesti e motteggi mutangoli, impasti di quella pasta afona che è lo scruscio, il frastuono silenzioso della paura, ovvero: "tutta una puliziata di piedi". Il libro di Balzoni consta di cinque grossi capitoli.
Nell'ordine: La tradizione, la tragedia, lo stato, il silenzio e il futuro. Il volume si accompagna con una citazione di Angelo Nicosia, parlamentare della commissione antimafia 1963-1976: "Le massime aspirazioni del siciliano sono tre: mangiare carne, cavalcare carne, comandare carne" e siccome la citazione non può cadere così, ricordiamo alcuni dettagli: Angelo Nicosia - protagonista della lotta alla mafia - venne pure accoltellato in piena Palermo. Uomo dallo stampo nobile, degno erede di Cesare Mori, fu parlamentare del Msi. Ma torniamo al libro.
"Ecco, lo dico: il danno". In questo ricco piatto di vicende dolorosissime ogni lettore può crearsi un viaggio credibile e incredibile dentro la storia e la mitologia contemporanea. Attraverso le parole d'onore, infatti, si possono sentire i frammenti di un canovaccio che sconfina anche nella commedia all'italiana. E come catalogare altrimenti la vicenda dell'eterno golpe Borghese?
"Se in Italia c'è la democrazia dovete ringraziare me" urla da una gabbia Luciano Liggio mentre assapora tra le labbra e i denti un appetitoso sigaro. Nell'estate del 1970 il principe Junio Valerio Borghese - comandante, sia detto per inciso, di Mauro de Mauro, il giornalista dell'Ora ucciso dalla mafia - chiedeva l'aiuto della cupola per portare a termine l'operazione Tora Tora, ossia la conquista di prefetture, questure, caserme e sedi Rai e l'abolizione della democrazia in tutta Italia. Per far questo il principe chiede alla mafia un elenco completo di nomi, affiliati e capi, famiglia per famiglia. E non solo: faceva anche richiesta che i picciotti portassero una fascia verde al braccio in segno di riconoscimento. Praticamente, povero principe, venne preso a fischi e piriti (leggi: peti).
"Ecco, lo dico: il danno". Una sceneggiatura da "Vogliamo i colonnelli" che non poteva trovare comparse tra i Pippo Calderone, Giuseppe Di Cristina e lo stesso Liggio che però colse l'occasione di tentare la carta estrema tanto cara ai giochi di potere in Italia, quella del "buttarsi a sinistra" nei momenti di difficoltà. E per buttarsi a sinistra ben bene, Liggio ci fece pure un discorso, questo: "Io non voglio scoprire il sederino a nessuno ma visto che il signor Buscetta nega l'ospitalità che gli ho dato a Catania, vi devo parlare di affari di Stato.
Nell'estate del 1970, lui e Totò Greco vennero da me per ragioni politiche. Avevano un progetto grandioso e megalomane per sovvertire lo Stato, certi politici promettevano cose grosse, volevano arruolare due, tre, diecimila uomini ma io a un certo punto mi rifiutai di rivederli. Presidente, queste cose il signor Buscetta non ve le ha mai dette, eh?. Non ho voluto portare l'Italia alla dittatura, se oggi c'è la democrazia dovete ringraziare me".
A parte il rammarico della mancata operazione Tora Tora c'è da segnalare come anche in questa occasione il linguaggio svelò un capovolgimento perfino ironico. "Ecco, lo dico: il danno". Commedia all'italiana o no, Liggio, prendendo la parola in quel 15 di aprile del 1986, aveva fatto uno sgarro. Gli arriva un biglietto e non sbaglierà a parlare mai più. "Fumati il sigaro ma fatti il carcerato". Così si leggeva nel pizzino recapitatogli.
"Ecco, lo dico: il danno". Era un personaggio molto carico il Liggio, col merito di avere hegelianamente definito per antitesi quella sintesi mai trovata tra gli archivi della giudiziaria nazionale. Invitato a deporre davanti alla commissione parlamentare antimafia, alla domanda del presidente: "Signor Liggio, secondo lei, esiste la mafia?", Liggio rispose: "Signor presidente, se esiste l'antimafia...".
E Liggio, forse più di Buscetta, ha un certo uso di mondo. Ha innanzitutto il debole per la filosofia. Sembra Achille Campanile quando sentenzia così: "Socrate è uno che ammiro perché come me non ha scritto niente". Pittore di quadri chissà dove finiti, Liggio non scriveva ma leggeva. Oculatamente solo alcune pagine: "Dei giornali leggo solo la terza pagina. Racconti e qualche recensione. Il resto è falso".
Ovviamente Liggio non poteva immaginare cosa sarebbero diventate le terze pagine oggi, ancora più false di tutto il resto del giornale ma la sua vena surreale è proprio gustosa: "Ho finito per odiare i sarti da quando sento dire: il giudice si mantiene abbottonato... Insomma, finisco per odiare i sarti perché non sanno abbottonare questi vestiti dei giudici. Sembra che ci lascino sempre gli occhielli aperti, non so, ma si aprono...". Un vero maestro della maieutica, il Liggio, maestro di Totò Riina peraltro, autore della sentenza massima in tema di dannazione criminale: "La curiosità è l'anticamera della sbirritudine". Guizzi di sicilitudine, manco a dirlo.
"Ecco, lo dico: il danno". La mafia che è materia di filologia può ben sostenere le disquisizioni sugli universali e la questione del nominalismo. La mafia è solo un flatus vocis, così a tal punto puro fiato di voce che Michele Greco, altrimenti noto come "il Papa", se ne dispera: "Mi accusano tutti solo perché il mio nome fa cartellone. Se anziché chiamarmi Michele Greco, mi chiamassi Michele Roccappinnuzza, io non mi troverei qui all'Ucciardone". Un ragionamento degno di Porfirio di Tiro, manco a dirlo.
"Ecco, lo dico: il danno". E di questo danno, infine, dobbiamo svelarne l'arcano, è un paragrafo che riprende l'interrogatorio di un banconista da bar chiamato a testimoniare dopo l'uccisione di Nenè Geraci, capomafia di Partinico. Domanda dell'avvocato: "Che cosa è successo?". Risposta: "E' successo che c'è stato... questo fatto che è successo. Diciamo... diciamo il... il danno". Ancora domanda: "Il danno?". Risposta: "Ecco, lo dico: il danno". Domanda finale: "Ci fu una sparatoria?". Risposta: "Mi... mi perdoni. Siccome, allora, le ripeto a dire: io ero sopra il banco a servire il caffè. Ora, siccome il bar la domenica mattina è sempre affollato. Sia la gente che è esterna, che parla di partite di calcio. Sia la gente che è interna che si consuma la rosticceria... quello che è successo l'hanno saputo all'esterno ed è entrato all'interno e poi se ne sono andati tutti via".
Ecco, l'abbiamo raccontato: il danno. Tra i protagonisti di questa grande mafiata il lettore troverà ovviamente Giulio Andreotti e la celeberrima scena della baciata con Riina e troverà anche Silvio Berlusconi, interessato a fare acquisti immobiliari in quel di Palemmo ma d'altronde - si sa - "iddu pensa sulu a iddu". Forte del conflitto d'interessi, Berlusconi che è iddu, pensa solo a se stesso e questa lettura di filologia e semiotica non può chiudersi che con uno striscione issato allo stadio della Favorita il 22 di dicembre del 2002: "Uniti contro il 41bis. Berlusconi dimentica la Sicilia". Sopraddetto. Unicamente parlando. Praticamente lui.

sabato 11 ottobre 2008

COMISO: CIRCOLO AN, SI' A INTITOLAZIONE AEROPORTO A MAGLIOCCO


Palermo, 11 ott. - (Adnkronos) - Il Circolo territoriale di Alleanza Nazionale di Comiso riconferma "la piena approvazione della decisione della Giunta comunale di restituire all'aeroporto di Comiso l'intitolazione al Generale Vincenzo Magliocco,(insignito, non si dimentichi, di una medaglia d'oro, due d'argento e una di bronzo". "Constatata la disinformazione che ad arte e' stata diffusa sull'argomento, infatti, va ribadito - si legge in una nota - che e' stata la precedente Giunta a modificare la intitolazione contro le indicazioni di sondaggi d'opinione effettuati prima e dopo che hanno confermato il mancato gradimento della modifica da parte della cittadinanza". Il Circolo ribadisce ancora che "il sindaco Alfano, votato dalla maggioranza dei Comisani, ha solo e semplicemente rimediato ad un errore, mantenendo un preciso impegno contratto con gli elettori in campagna elettorale e rispettando la volonta' di tutta la cittadinanza". Per An "assolutamente incomprensibili appaiono le ingerenze poco opportune e le prese di posizione, talvolta anche offensive, della sinistra e di esponenti politici di vertice che vorrebbero imporre delle decisioni calate dall'alto alla comunita' comisana che chiede soltanto il rispetto della propria autonomia e della dignita' della propria memoria storica locale. Agli immemori si ricorda in merito chela presenza dell'aeroporto Comiso la deve ad uno dei suoi figli piu' illustri, Biagio Pace, e che solo per l'esistenza di tale base territoriale ne e' stato possibile negli anni piu' recenti progettare la riattivazione".

lunedì 6 ottobre 2008

LA GUERRA DEL FASCISMO IN SICILIA CONTRO LA MAFIA



LA GUERRA DEL FASCISMO IN SICILIA CONTRO LA MAFIA

Di Michelangelo Ingrassia

Sulla storia del rapporto tra il fascismo e la Sicilia pesa un giudizio storiografico schematizzante, di derivazione gramsciana, che inserisce il fascismo nell'ambito del tradizionale blocco agrario isolano e proteso ad instaurare trasformisticamente un sistema di potere non dissimile da quelli che si erano formati prima dell'avvento del fascismo. Le considerazioni di Gramsci hanno trovato una sponda in quelle di un azionista come Guido Dorso o di un liberale come Piero Gobetti: concordi nell'attribuire le responsabilità dell'arretratezza di tutto il meridione ai compromessi delle classi dirigenti che si erano succedute al governo del paese, ivi compresa quella fascista.(1) Perfettamente inserita in questo quadro storiografico classista e/o morale è la tesi di chi, ancora oggi, si ostina a negare un valore storico e politico alla lotta del fascismo contro la mafia. Così, è stato scritto che "la dittatura fascista offrì alla classe dominante siciliana un'alternativa capace di sostituire e superare negli effetti i metodi mafiosi, come ad esempio la repressione del movimento contadino organizzato".(2) E c'è stato chi ha affermato che se il fascismo, a livello nazionale, ha avuto "stretti legami con la classe agraria (...) in Sicilia, però, la situazione è complessa, essendovi la mafia, che è un sodalizio criminoso da combattere, ma che è al tempo stesso legata alla classe agraria (...) Da qui la necessità (...) di una soluzione di compromesso (...) combattere la mafia, costringendola a non commettere delitti; ma, al tempo stesso, lasciare intatta la sua struttura".(3) La conclusione stupefacente di questo ragionamento a dir poco incredibile è che "la mafia subisce la repressione e non commette alcun omicidio. Precisamente, non uccide: nè il Prefetto Mori, nè il Procuratore Giampietro; nè alcun poliziotto; nè alcun carabiniere; nè alcun magistrato".(4) Quest'ultima osservazione, ancorchè macabra, è storicamente inesatta, perchè la mafia uccise!
Per troppo tempo le vittime fasciste della mafia sono state dimenticate e, dunque, assassinate due volte: dal piombo della lupara e da quello di una storiografia che, con i suoi pregiudizi e le sue distorsioni e contorsioni, non può non definirsi faziosa. Infatti, ancor prima che Mussolini formasse nell'ottobre 1922 il suo governo, in Sicilia cadevano vittime di agguati mafiosi il giovane fascista di Misilmeri (in provincia di Palermo) Mariano De Caro, ed il segretario del Fascio di Vita (nell'entroterra trapanese) Bartolomeo Perricone il quale era succeduto nella carica al fratello Domenico, pure lui assassinato dalla mafia.(5)
Queste vittime fasciste della mafia testimoniano tragicamente la vocazione antimafiosa del fascismo, e fanno comprendere quanto difficile sia stata la penetrazione fascista in Sicilia e contrastata la sua affermazione che, infatti, avverrà in tempi e forme diverse che nel resto d'Italia.
Non poteva essere diversamente dal momento che la realtà culturale e sociale dell'isola era caratterizzata, come ha evidenziato lo storico siciliano Giuseppe Tricoli, da un fenomeno come quello del latifondismo agrario attorno al quale si aggregava "in un blocco più che compatto, grazie alla fitta rete di mediazioni delle cosche mafiose, delle sette massoniche, delle clientele locali, la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica siciliana".(6)
In questa realtà conformista e conservatrice i nuovi movimenti culturali ed ideologici come il romanticismo, il liberalismo ed il socialismo erano sì riusciti a penetrare, ma conformandosi ed alla fine integrandosi "nel blocco storico dominante, contribuendo a perpetuare uno stato di sostanziale immobilismo".(7) Invece i fermenti eretici del futurismo, del nazionalismo, del dannunzianesimo e dello stesso fascismo restavano espressione di persone e gruppi isolati e sostanzialmente emarginati "sicchè le loro idee non riuscivano ad avere incidenza politica e tantomeno a formare una base di massa".(8) Non a caso alle elezioni politiche del 1921 mentre nella penisola il fascismo si affermava con notevole successo, in Sicilia addirittura non figuravano liste fasciste; un elemento, questo, chiarificatore di quella precarietà del fascismo siciliano delle origini e della sua estraneità verso quel vecchio mondo del pescecanismo agrario-mafioso.
Ma del resto non era facile inserirsi nel quadro politico siciliano rappresentato dal liberalismo di Vittorio Emanuele Orlando, dalla Democrazia Sociale di Francesco Saverio Nitti e dal socialriformismo. In sostanza, la vecchia italietta passatista e trasformista di giolittiana tradizione aveva nella Sicilia la sua roccaforte grazie alle condizioni sociali e culturali dell'isola che ne avevano favorito il radicamento.
La grande svolta nel rapporto tra fascismo e Sicilia arriva nel 1924, quando ormai è matura nella nuova classe dirigente del paese la consapevolezza che per liberare la Sicilia occorre sgretolare il fronte interno sociale, culturale e politico dell'isola che fa perno proprio nella mafia. Il fascismo, in questa fase, è impegnato su due versanti: da un lato occorre contrastare il tentativo del vecchio blocco di potere isolano di salire sul carro del fascista vincitore, dall'altro è necessario costruire quella presenza dello Stato che nell'isola non c'era mai stata, in modo da far sentire la Sicilia parte attiva dell'Italia. Si tratta, cioè, di riuscire laddove il vecchio Stato liberale era fallito: integrare la Sicilia nella realtà nazionale. Il tributo di sangue pagato dal fascismo originario nella Sicilia inquinata del periodo antemarcia è la prima tappa di questo percorso e la lotta alla mafia, inserita in questo contesto, diventa un problema metapolitico, un dovere morale per il fascismo al potere. Così, già all'indomani della Marcia su Roma, tra il novembre ed il dicembre del 1922, ecco la prima grande azione dimostrativa del fascismo palermitano a Corleone ed a Marineo per protestare contro l'ennesimo eccidio mafioso. E nel marzo 1924, in un famoso comizio tenuto a Palermo, ecco Giovanni Gentile, ministro di Mussolini, assegnare al fascismo siciliano il compito di polverizzare "gli strati ancora spessi di vecchi detriti della corrotta politichetta delle clientele campanilistiche o parlamentari" e di annientare certi "vecchi che sorridono, impettiti, per le loro aderenze coi soliti manipolatori e traffichini che non si danno ancora per vinti".(9)
E sul fronte della vigilanza, ecco i quadri del fascismo siciliano ed i Prefetti dell'isola denunciare in azione congiunta i tentativi d'infiltrazione mafiosa nel Partito Nazionale Fascista.(10) Emblematica in proposito la vicenda dell'onorevole Drago, un deputato socialriformista compromesso con le cosche delle Madonie, il cui improviso e sospetto filofascismo venne denunciato dalla stampa fascista isolana senza tentennamenti. E ancora và ricordata l'intensa attività ispettiva nell'isola di dirigenti fascisti nazionali come Starace (destinato poi a diventare segretario nazionale del Pnf), Rocca e Giunta.
Sono questi i primi segnali della versione siciliana di quella guerra tra la nuova Italia fascista e la vecchia Italia prefascista. In questa battaglia combattuta sul fronte siciliano, la mafia si configura come "il nucleo più ferreo dell'antico blocco egemone";(11) e questo vecchio blocco egemone, per la nuova Italia fascista, si frappone tra lo Stato e l'isola impedendo di portare a termine anche in Sicilia il Risorgimento. Colpire la mafia, quindi, per scardinare questo blocco egemone è la strategia del fascismo per raggiungere l'obiettivo dell'integrazione nazionale dell'isola. Decisiva, a tal fine, è la visita che lo stesso Mussolini compie in Sicilia nel 1924 e che offre al giovane Presidente del Consiglio l'opportunità di avere una presa di contatto diretta con la particolare realtà siciliana. Un contatto ravvicinato simboleggiato dal significativo incontro/scontro con quel don Ciccio Cuccia, sindaco di Piana degli Albanesi e capo-cosca della zona, il quale accoglie il Duce lamentandosi arrogantemente della presenza della scorta ritenuta inutile nel suo paese perchè lì alla sicurezza di Mussolini avrebbe provveduto lui stesso. E' facilmente immaginabile l'indignazione di Mussolini il quale dimostrerà di avere compreso la complessità della realtà siciliana nel momento in cui, qualche giorno dopo, in un comizio ad Agrigento, affermerà: "voi avete dei bisogni di ordine materiale che conosco: si è parlato di strade, di acqua, di bonifica, si è detto che bisogna garantire la proprietà e l'incolumità dei cittadini che lavorano (...) Non deve essere più oltre tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra".(12)
Ora, appare evidente come il vero problema storiografico, nell'ambito del rapporto tra fascismo e Sicilia, non sia quello di misurare il tasso di efficacia della cosiddetta operazione Mori, che sarebbe riduttivo e fuorviante, ma di capire se il fascismo era nel giusto quando sosteneva che per valorizzare la Sicilia, per farla sentire parte della Nazione, occorreva sradicare quel blocco egemone latifondista e conservatore che tanti guasti aveva prodotto financo nella mentalità e negli usi e costumi di tutto un popolo, e che nella mafia trovava il suo aspetto esteriore tangibile ed il suo temibile e temuto gruppo di fuoco. La Sicilia aspettava ancora la terra promessa da Garibaldi all'indomani dello sbarco dei mille; la Sicilia non aveva visto segni di presenza dello Stato italiano; la Sicilia aveva subìto l'indifferenza prima dei Borbone e poi dei Savoia verso il ceto latifondista; i siciliani che sul finire dell'ottocento avevano trovato la volontà ed il coraggio di riscattarsi con la lotta dei Fasci dei Lavoratori, erano stati aggrediti militarmente dallo Stato e abbandonati a sè stessi dal nascente Partito Socialista Italiano. Un errore storico, questo del disinteresse socialista, la cui gravità ancora oggi non viene messa bene a fuoco. Un errore che anche il fascismo rischiò di compiere quando, di fronte al fallimento dei primi tentativi di penetrazione fatti, il Comitato Centrale Fascista affermò in un documento dell'agosto 1922 che la Sicilia sarebbe diventata, nella futura Italia fascista, "il ricettacolo di tutto il marciume che noi cacceremo da Roma".(13)
Questo disinteresse del fascismo verso la Sicilia, inversamente proporzionale al sostanziale disinteresse della Sicilia verso il fascismo ancora alla vigilia della marcia su Roma, smentisce la tesi di Gramsci, Dorso e Gobetti del connubio tra fascismo, classe agraria siciliana e cosche mafiose; tesi peraltro spazzata via dal sangue dei giovani fascisti assassinati per mano mafiosa.
Nel 1922, una volta giunto al potere, il fascismo decide di fare pulizia nell'isola e dichiara guerra alla mafia ed al blocco dominante da questa protetto: ed è una guerra culturale, politica e militare quella combattuta dal fascismo; un gesto di rottura con il passato che si inquadra nell'azione rivoluzionaria intrapresa dal fascismo di portare a termine il Risorgimento italiano integrando la nazione. Un gesto di rottura compiuto su due fronti: contro il tradizionale atteggiamento dei vecchi governi liberali che in Sicilia avevano lasciato fare e lasciato passare; e contro quel blocco sociale, culturale e politico isolano che, approfittando della colpevole indifferenza del vecchio Stato liberale, aveva potuto radicarsi e crescere fino a sequestrare l'isola inglobando e metabolizzando ogni nuovo fermento politico-culturale e annientando col gruppo di fuoco mafioso ogni tentativo di resistenza, compreso quello del giovane fascismo siciliano.
In questa prospettiva, la lotta alla mafia di Cesare Mori non va ridotta ad una semplice operazione di polizia, come pretende una certa storiografia; ma costituisce la prima tappa di un globale rinnovamento della Sicilia chiamata dal fascismo a svolgere un ruolo primario in una rinnovata Italia che, ormai protesa verso l'Africa ed il vicino oriente e la costa adriatica, aspirava al primato di grande potenza mediterranea nel consesso delle nazioni. Con l'azione del prefetto Mori venivano raggiunti gli obiettivi preliminari della strategia fascista: innanzitutto veniva debellata la manovalanza mafiosa; poi veniva scompaginato il blocco egemone relegando nell'angolo dell'impotenza personaggi come Vittorio Emanuele Orlando ed il conte Lucio Tasca (che ricompariranno a guerra finita);(14) infine veniva spezzato l'anello di congiunzione fra cosche mafiose e blocco egemone con l'arresto di decine di sindaci, avvocati, notabili vari, tutti condannati a gravi pene detentive. Tutto ciò dimostra, fra l'altro, che non è vero che il prefetto di ferro si sia fermato in basso; anzi, come ha ammesso recentemente uno storico di sinistra documentando i fatti, "Mori colpì duro anche in alto".(15)
L'azione di Mori si esaurì nel momento in cui il prefetto rese innocuo il gruppo di fuoco mafioso e mise in crisi l'alleanza tra latifondisti, vecchi politici e cosche mafiose. E' questo il momento in cui quel blocco egemone siciliano, che era il vero bersaglio culturale e politico del fascismo, rimasto privo del gruppo di fuoco mafioso col quale proteggersi ed intimidire e non avendo più a disposizione quegli elementi mafiosi infiltrati nelle istituzioni isolane, venne sconfitto. Terminata la fase giudiziaria e repressiva, il fascismo continuò la guerra di liberazione della Sicilia attraverso un'azione amministrativa, una bonifica psicologica, un'azione educativa ed una bonifica economica e sociale che, iniziate con un efficace piano di realizzazione di opere pubbliche, culminarono nel 1940 con la legge contro il latifondo. I siciliani videro finalmente uno Stato che costruiva le infrastrutture, che modernizzava l'isola con il risanamento delle città e con la costruzione di dighe, strade, ospedali, case, aeroporti; videro uno Stato che attraverso l'Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano colpiva gli interessi dei latifondisti; videro un'Italia che considerava la Sicilia come il centro geografico dell'impero, per usare un'espressione di Mussolini.
Alcune considerazioni rapide e finali per smentire i luoghi comuni di una storiografia viziata ed ormai avariata. Non è vero che dopo Mori il fascismo abbassò la guardia nella lotta contro la mafia: ancora nel 1935 a Cattolica Eraclea venivano arrestati 245 mafiosi; altri 211 mafiosi operanti tra Favara e Palma di Montechiaro sarebbero finiti in prigione due anni più tardi.
Una certa storiografia presenta Mori come antifascista: giova ricordare che il prefetto di ferro fu uno dei pochi a restare al suo posto durante la crisi Matteotti rinnovando così la propria fiducia a Mussolini. La stessa storiografia utilizza il coinvolgimento di Alfredo Cucco, uomo di punta del fascismo siciliano, nelle indagini di Mori per dimostrare presunte connivenze del fascismo che avrebbero interrotto l'azione del prefetto, non è così: Cucco si difese per decenni nelle aule di giustizia e, pienamente assolto, venne riammesso nel Pnf soltanto nel 1940; seguirà Mussolini nella Rsi e sarà tra i fondatori del Msi in Sicilia; l'attacco di Mori a Cucco muoveva, come ha documentato lo storico Giuseppe Tricoli, dal modesto fatto che ambedue volevano guidare il movimento antimafia del fascismo per mettersi in luce.(16)
A questo punto è arrivato il momento di riconoscere serenamente che il fascismo, in Sicilia, combattendo la mafia, si incaricò di squarciare quel muro di indifferenza astorica e conformista che una Sicilia sequestrata per lunghi anni da una oligarchia politico-sociale aveva eretto contro lo Stato. Su questo muro il fascismo riuscì ad aprire una crepa e segnò un'epoca, interrotta nella notte tra il 9 ed il 10 luglio 1943 quando la più grande flotta alleatà aggredì la costa siciliana con la complicità di quegli elementi mafiosi che il fascismo aveva cacciato dall'isola. Fu così che quei gabelloti che un accordo del 1927 tra Confederazione Fascista dei Lavoratori Agricoli e Federazione dell'Agricoltura aveva eliminato dalle campagne siciliane, alle campagne arrogantemente tornarono nel 1943 con il sostegno degli Alleati in uno scambio perverso di favori. Ma questa è un'altra storia.

NOTE
1) Si segnalano in proposito: A. Gramsci, Sul Fascismo, Roma 1973; G. Dorso, Mussolini alla conquista del potere, Verona 1949; P. Gobetti, Opere Complete, Torino 1960, vol. I.
E' nel pensiero di questi scrittori politici l'origine culturale di quel pregiudizio storiografico sull'azione del fascismo in Sicilia che, tramandatosi nel tempo, ancora oggi sopravvive.
2) I. Sales, La camorra le camorre, Roma 1988, p.113
3) G. Montalbano, Sicilia autonoma, Palermo 1986, p. 180
4) ibidem, p. 181
5) Una rievocazione delle vittime e degli agguati è rintracciabile in: G. F. Di Marco, Clima di un'impresa storica, Palermo 1937, pp. 93 - 95
6) G. Tricoli, Il fascismo e la lotta contro la mafia, Palermo 1989, p. 6
7) ibidem
8) ibidem, p. 7
9) G. Gentile, Il fascismo e la Sicilia, discorso pronunciato al Teatro Massimo di Palermo il 31 marzo 1924; il testo completo nella prima pagina del giornale pomeridiano palermitano L'Ora del 31 marzo/1 aprile 1924
10) cfr. G. Tricoli, op. cit., p. 16
11) ibidem, p. 18
12) Il discorso del Duce è riportato in: B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di D. Susmel, Firenze 1963, vol. XX, p. 264
13) cfr. G. Tricoli, op. cit., p. 12
14) In un comizio tenuto a Palermo nell'estate 1925, in occasione delle locali elezioni amministrative, così si esprimeva Vittorio Emanuele Orlando leader della coalizione antifascista: "Or io dico, signori, che se per mafia si intende (...) la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte (...) mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo". Cfr. Il Giornale di Sicilia, 28/29 luglio 1925; il brano è citato anche in: A. Petacco, Il prefetto di ferro, Milano 1975, pp. 76 - 77. Del cavaliere Tasca, che nel 1943 sarà sindaco della Palermo amministrata dagli Alleati, ci limitiamo a ricordare un suo libello dal titolo significativo: Elogio del Latifondo che fu il testo sacro del ceto agrario siciliano
15) Cfr. G. C. Marino, Storia della mafia, Roma 1997, p. 47
16) Cfr. G. Tricoli, op. cit., p. 31

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