LA GUERRA DEL FASCISMO IN SICILIA CONTRO LA MAFIA
Di Michelangelo Ingrassia
Sulla storia del rapporto tra il fascismo e la Sicilia pesa un giudizio storiografico schematizzante, di derivazione gramsciana, che inserisce il fascismo nell'ambito del tradizionale blocco agrario isolano e proteso ad instaurare trasformisticamente un sistema di potere non dissimile da quelli che si erano formati prima dell'avvento del fascismo. Le considerazioni di Gramsci hanno trovato una sponda in quelle di un azionista come Guido Dorso o di un liberale come Piero Gobetti: concordi nell'attribuire le responsabilità dell'arretratezza di tutto il meridione ai compromessi delle classi dirigenti che si erano succedute al governo del paese, ivi compresa quella fascista.(1) Perfettamente inserita in questo quadro storiografico classista e/o morale è la tesi di chi, ancora oggi, si ostina a negare un valore storico e politico alla lotta del fascismo contro la mafia. Così, è stato scritto che "la dittatura fascista offrì alla classe dominante siciliana un'alternativa capace di sostituire e superare negli effetti i metodi mafiosi, come ad esempio la repressione del movimento contadino organizzato".(2) E c'è stato chi ha affermato che se il fascismo, a livello nazionale, ha avuto "stretti legami con la classe agraria (...) in Sicilia, però, la situazione è complessa, essendovi la mafia, che è un sodalizio criminoso da combattere, ma che è al tempo stesso legata alla classe agraria (...) Da qui la necessità (...) di una soluzione di compromesso (...) combattere la mafia, costringendola a non commettere delitti; ma, al tempo stesso, lasciare intatta la sua struttura".(3) La conclusione stupefacente di questo ragionamento a dir poco incredibile è che "la mafia subisce la repressione e non commette alcun omicidio. Precisamente, non uccide: nè il Prefetto Mori, nè il Procuratore Giampietro; nè alcun poliziotto; nè alcun carabiniere; nè alcun magistrato".(4) Quest'ultima osservazione, ancorchè macabra, è storicamente inesatta, perchè la mafia uccise!
Per troppo tempo le vittime fasciste della mafia sono state dimenticate e, dunque, assassinate due volte: dal piombo della lupara e da quello di una storiografia che, con i suoi pregiudizi e le sue distorsioni e contorsioni, non può non definirsi faziosa. Infatti, ancor prima che Mussolini formasse nell'ottobre 1922 il suo governo, in Sicilia cadevano vittime di agguati mafiosi il giovane fascista di Misilmeri (in provincia di Palermo) Mariano De Caro, ed il segretario del Fascio di Vita (nell'entroterra trapanese) Bartolomeo Perricone il quale era succeduto nella carica al fratello Domenico, pure lui assassinato dalla mafia.(5)
Queste vittime fasciste della mafia testimoniano tragicamente la vocazione antimafiosa del fascismo, e fanno comprendere quanto difficile sia stata la penetrazione fascista in Sicilia e contrastata la sua affermazione che, infatti, avverrà in tempi e forme diverse che nel resto d'Italia.
Non poteva essere diversamente dal momento che la realtà culturale e sociale dell'isola era caratterizzata, come ha evidenziato lo storico siciliano Giuseppe Tricoli, da un fenomeno come quello del latifondismo agrario attorno al quale si aggregava "in un blocco più che compatto, grazie alla fitta rete di mediazioni delle cosche mafiose, delle sette massoniche, delle clientele locali, la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica siciliana".(6)
In questa realtà conformista e conservatrice i nuovi movimenti culturali ed ideologici come il romanticismo, il liberalismo ed il socialismo erano sì riusciti a penetrare, ma conformandosi ed alla fine integrandosi "nel blocco storico dominante, contribuendo a perpetuare uno stato di sostanziale immobilismo".(7) Invece i fermenti eretici del futurismo, del nazionalismo, del dannunzianesimo e dello stesso fascismo restavano espressione di persone e gruppi isolati e sostanzialmente emarginati "sicchè le loro idee non riuscivano ad avere incidenza politica e tantomeno a formare una base di massa".(8) Non a caso alle elezioni politiche del 1921 mentre nella penisola il fascismo si affermava con notevole successo, in Sicilia addirittura non figuravano liste fasciste; un elemento, questo, chiarificatore di quella precarietà del fascismo siciliano delle origini e della sua estraneità verso quel vecchio mondo del pescecanismo agrario-mafioso.
Ma del resto non era facile inserirsi nel quadro politico siciliano rappresentato dal liberalismo di Vittorio Emanuele Orlando, dalla Democrazia Sociale di Francesco Saverio Nitti e dal socialriformismo. In sostanza, la vecchia italietta passatista e trasformista di giolittiana tradizione aveva nella Sicilia la sua roccaforte grazie alle condizioni sociali e culturali dell'isola che ne avevano favorito il radicamento.
La grande svolta nel rapporto tra fascismo e Sicilia arriva nel 1924, quando ormai è matura nella nuova classe dirigente del paese la consapevolezza che per liberare la Sicilia occorre sgretolare il fronte interno sociale, culturale e politico dell'isola che fa perno proprio nella mafia. Il fascismo, in questa fase, è impegnato su due versanti: da un lato occorre contrastare il tentativo del vecchio blocco di potere isolano di salire sul carro del fascista vincitore, dall'altro è necessario costruire quella presenza dello Stato che nell'isola non c'era mai stata, in modo da far sentire la Sicilia parte attiva dell'Italia. Si tratta, cioè, di riuscire laddove il vecchio Stato liberale era fallito: integrare la Sicilia nella realtà nazionale. Il tributo di sangue pagato dal fascismo originario nella Sicilia inquinata del periodo antemarcia è la prima tappa di questo percorso e la lotta alla mafia, inserita in questo contesto, diventa un problema metapolitico, un dovere morale per il fascismo al potere. Così, già all'indomani della Marcia su Roma, tra il novembre ed il dicembre del 1922, ecco la prima grande azione dimostrativa del fascismo palermitano a Corleone ed a Marineo per protestare contro l'ennesimo eccidio mafioso. E nel marzo 1924, in un famoso comizio tenuto a Palermo, ecco Giovanni Gentile, ministro di Mussolini, assegnare al fascismo siciliano il compito di polverizzare "gli strati ancora spessi di vecchi detriti della corrotta politichetta delle clientele campanilistiche o parlamentari" e di annientare certi "vecchi che sorridono, impettiti, per le loro aderenze coi soliti manipolatori e traffichini che non si danno ancora per vinti".(9)
E sul fronte della vigilanza, ecco i quadri del fascismo siciliano ed i Prefetti dell'isola denunciare in azione congiunta i tentativi d'infiltrazione mafiosa nel Partito Nazionale Fascista.(10) Emblematica in proposito la vicenda dell'onorevole Drago, un deputato socialriformista compromesso con le cosche delle Madonie, il cui improviso e sospetto filofascismo venne denunciato dalla stampa fascista isolana senza tentennamenti. E ancora và ricordata l'intensa attività ispettiva nell'isola di dirigenti fascisti nazionali come Starace (destinato poi a diventare segretario nazionale del Pnf), Rocca e Giunta.
Sono questi i primi segnali della versione siciliana di quella guerra tra la nuova Italia fascista e la vecchia Italia prefascista. In questa battaglia combattuta sul fronte siciliano, la mafia si configura come "il nucleo più ferreo dell'antico blocco egemone";(11) e questo vecchio blocco egemone, per la nuova Italia fascista, si frappone tra lo Stato e l'isola impedendo di portare a termine anche in Sicilia il Risorgimento. Colpire la mafia, quindi, per scardinare questo blocco egemone è la strategia del fascismo per raggiungere l'obiettivo dell'integrazione nazionale dell'isola. Decisiva, a tal fine, è la visita che lo stesso Mussolini compie in Sicilia nel 1924 e che offre al giovane Presidente del Consiglio l'opportunità di avere una presa di contatto diretta con la particolare realtà siciliana. Un contatto ravvicinato simboleggiato dal significativo incontro/scontro con quel don Ciccio Cuccia, sindaco di Piana degli Albanesi e capo-cosca della zona, il quale accoglie il Duce lamentandosi arrogantemente della presenza della scorta ritenuta inutile nel suo paese perchè lì alla sicurezza di Mussolini avrebbe provveduto lui stesso. E' facilmente immaginabile l'indignazione di Mussolini il quale dimostrerà di avere compreso la complessità della realtà siciliana nel momento in cui, qualche giorno dopo, in un comizio ad Agrigento, affermerà: "voi avete dei bisogni di ordine materiale che conosco: si è parlato di strade, di acqua, di bonifica, si è detto che bisogna garantire la proprietà e l'incolumità dei cittadini che lavorano (...) Non deve essere più oltre tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra".(12)
Ora, appare evidente come il vero problema storiografico, nell'ambito del rapporto tra fascismo e Sicilia, non sia quello di misurare il tasso di efficacia della cosiddetta operazione Mori, che sarebbe riduttivo e fuorviante, ma di capire se il fascismo era nel giusto quando sosteneva che per valorizzare la Sicilia, per farla sentire parte della Nazione, occorreva sradicare quel blocco egemone latifondista e conservatore che tanti guasti aveva prodotto financo nella mentalità e negli usi e costumi di tutto un popolo, e che nella mafia trovava il suo aspetto esteriore tangibile ed il suo temibile e temuto gruppo di fuoco. La Sicilia aspettava ancora la terra promessa da Garibaldi all'indomani dello sbarco dei mille; la Sicilia non aveva visto segni di presenza dello Stato italiano; la Sicilia aveva subìto l'indifferenza prima dei Borbone e poi dei Savoia verso il ceto latifondista; i siciliani che sul finire dell'ottocento avevano trovato la volontà ed il coraggio di riscattarsi con la lotta dei Fasci dei Lavoratori, erano stati aggrediti militarmente dallo Stato e abbandonati a sè stessi dal nascente Partito Socialista Italiano. Un errore storico, questo del disinteresse socialista, la cui gravità ancora oggi non viene messa bene a fuoco. Un errore che anche il fascismo rischiò di compiere quando, di fronte al fallimento dei primi tentativi di penetrazione fatti, il Comitato Centrale Fascista affermò in un documento dell'agosto 1922 che la Sicilia sarebbe diventata, nella futura Italia fascista, "il ricettacolo di tutto il marciume che noi cacceremo da Roma".(13)
Questo disinteresse del fascismo verso la Sicilia, inversamente proporzionale al sostanziale disinteresse della Sicilia verso il fascismo ancora alla vigilia della marcia su Roma, smentisce la tesi di Gramsci, Dorso e Gobetti del connubio tra fascismo, classe agraria siciliana e cosche mafiose; tesi peraltro spazzata via dal sangue dei giovani fascisti assassinati per mano mafiosa.
Nel 1922, una volta giunto al potere, il fascismo decide di fare pulizia nell'isola e dichiara guerra alla mafia ed al blocco dominante da questa protetto: ed è una guerra culturale, politica e militare quella combattuta dal fascismo; un gesto di rottura con il passato che si inquadra nell'azione rivoluzionaria intrapresa dal fascismo di portare a termine il Risorgimento italiano integrando la nazione. Un gesto di rottura compiuto su due fronti: contro il tradizionale atteggiamento dei vecchi governi liberali che in Sicilia avevano lasciato fare e lasciato passare; e contro quel blocco sociale, culturale e politico isolano che, approfittando della colpevole indifferenza del vecchio Stato liberale, aveva potuto radicarsi e crescere fino a sequestrare l'isola inglobando e metabolizzando ogni nuovo fermento politico-culturale e annientando col gruppo di fuoco mafioso ogni tentativo di resistenza, compreso quello del giovane fascismo siciliano.
In questa prospettiva, la lotta alla mafia di Cesare Mori non va ridotta ad una semplice operazione di polizia, come pretende una certa storiografia; ma costituisce la prima tappa di un globale rinnovamento della Sicilia chiamata dal fascismo a svolgere un ruolo primario in una rinnovata Italia che, ormai protesa verso l'Africa ed il vicino oriente e la costa adriatica, aspirava al primato di grande potenza mediterranea nel consesso delle nazioni. Con l'azione del prefetto Mori venivano raggiunti gli obiettivi preliminari della strategia fascista: innanzitutto veniva debellata la manovalanza mafiosa; poi veniva scompaginato il blocco egemone relegando nell'angolo dell'impotenza personaggi come Vittorio Emanuele Orlando ed il conte Lucio Tasca (che ricompariranno a guerra finita);(14) infine veniva spezzato l'anello di congiunzione fra cosche mafiose e blocco egemone con l'arresto di decine di sindaci, avvocati, notabili vari, tutti condannati a gravi pene detentive. Tutto ciò dimostra, fra l'altro, che non è vero che il prefetto di ferro si sia fermato in basso; anzi, come ha ammesso recentemente uno storico di sinistra documentando i fatti, "Mori colpì duro anche in alto".(15)
L'azione di Mori si esaurì nel momento in cui il prefetto rese innocuo il gruppo di fuoco mafioso e mise in crisi l'alleanza tra latifondisti, vecchi politici e cosche mafiose. E' questo il momento in cui quel blocco egemone siciliano, che era il vero bersaglio culturale e politico del fascismo, rimasto privo del gruppo di fuoco mafioso col quale proteggersi ed intimidire e non avendo più a disposizione quegli elementi mafiosi infiltrati nelle istituzioni isolane, venne sconfitto. Terminata la fase giudiziaria e repressiva, il fascismo continuò la guerra di liberazione della Sicilia attraverso un'azione amministrativa, una bonifica psicologica, un'azione educativa ed una bonifica economica e sociale che, iniziate con un efficace piano di realizzazione di opere pubbliche, culminarono nel 1940 con la legge contro il latifondo. I siciliani videro finalmente uno Stato che costruiva le infrastrutture, che modernizzava l'isola con il risanamento delle città e con la costruzione di dighe, strade, ospedali, case, aeroporti; videro uno Stato che attraverso l'Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano colpiva gli interessi dei latifondisti; videro un'Italia che considerava la Sicilia come il centro geografico dell'impero, per usare un'espressione di Mussolini.
Alcune considerazioni rapide e finali per smentire i luoghi comuni di una storiografia viziata ed ormai avariata. Non è vero che dopo Mori il fascismo abbassò la guardia nella lotta contro la mafia: ancora nel 1935 a Cattolica Eraclea venivano arrestati 245 mafiosi; altri 211 mafiosi operanti tra Favara e Palma di Montechiaro sarebbero finiti in prigione due anni più tardi.
Una certa storiografia presenta Mori come antifascista: giova ricordare che il prefetto di ferro fu uno dei pochi a restare al suo posto durante la crisi Matteotti rinnovando così la propria fiducia a Mussolini. La stessa storiografia utilizza il coinvolgimento di Alfredo Cucco, uomo di punta del fascismo siciliano, nelle indagini di Mori per dimostrare presunte connivenze del fascismo che avrebbero interrotto l'azione del prefetto, non è così: Cucco si difese per decenni nelle aule di giustizia e, pienamente assolto, venne riammesso nel Pnf soltanto nel 1940; seguirà Mussolini nella Rsi e sarà tra i fondatori del Msi in Sicilia; l'attacco di Mori a Cucco muoveva, come ha documentato lo storico Giuseppe Tricoli, dal modesto fatto che ambedue volevano guidare il movimento antimafia del fascismo per mettersi in luce.(16)
A questo punto è arrivato il momento di riconoscere serenamente che il fascismo, in Sicilia, combattendo la mafia, si incaricò di squarciare quel muro di indifferenza astorica e conformista che una Sicilia sequestrata per lunghi anni da una oligarchia politico-sociale aveva eretto contro lo Stato. Su questo muro il fascismo riuscì ad aprire una crepa e segnò un'epoca, interrotta nella notte tra il 9 ed il 10 luglio 1943 quando la più grande flotta alleatà aggredì la costa siciliana con la complicità di quegli elementi mafiosi che il fascismo aveva cacciato dall'isola. Fu così che quei gabelloti che un accordo del 1927 tra Confederazione Fascista dei Lavoratori Agricoli e Federazione dell'Agricoltura aveva eliminato dalle campagne siciliane, alle campagne arrogantemente tornarono nel 1943 con il sostegno degli Alleati in uno scambio perverso di favori. Ma questa è un'altra storia.
NOTE
1) Si segnalano in proposito: A. Gramsci, Sul Fascismo, Roma 1973; G. Dorso, Mussolini alla conquista del potere, Verona 1949; P. Gobetti, Opere Complete, Torino 1960, vol. I.
E' nel pensiero di questi scrittori politici l'origine culturale di quel pregiudizio storiografico sull'azione del fascismo in Sicilia che, tramandatosi nel tempo, ancora oggi sopravvive.
2) I. Sales, La camorra le camorre, Roma 1988, p.113
3) G. Montalbano, Sicilia autonoma, Palermo 1986, p. 180
4) ibidem, p. 181
5) Una rievocazione delle vittime e degli agguati è rintracciabile in: G. F. Di Marco, Clima di un'impresa storica, Palermo 1937, pp. 93 - 95
6) G. Tricoli, Il fascismo e la lotta contro la mafia, Palermo 1989, p. 6
7) ibidem
8) ibidem, p. 7
9) G. Gentile, Il fascismo e la Sicilia, discorso pronunciato al Teatro Massimo di Palermo il 31 marzo 1924; il testo completo nella prima pagina del giornale pomeridiano palermitano L'Ora del 31 marzo/1 aprile 1924
10) cfr. G. Tricoli, op. cit., p. 16
11) ibidem, p. 18
12) Il discorso del Duce è riportato in: B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di D. Susmel, Firenze 1963, vol. XX, p. 264
13) cfr. G. Tricoli, op. cit., p. 12
14) In un comizio tenuto a Palermo nell'estate 1925, in occasione delle locali elezioni amministrative, così si esprimeva Vittorio Emanuele Orlando leader della coalizione antifascista: "Or io dico, signori, che se per mafia si intende (...) la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte (...) mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo". Cfr. Il Giornale di Sicilia, 28/29 luglio 1925; il brano è citato anche in: A. Petacco, Il prefetto di ferro, Milano 1975, pp. 76 - 77. Del cavaliere Tasca, che nel 1943 sarà sindaco della Palermo amministrata dagli Alleati, ci limitiamo a ricordare un suo libello dal titolo significativo: Elogio del Latifondo che fu il testo sacro del ceto agrario siciliano
15) Cfr. G. C. Marino, Storia della mafia, Roma 1997, p. 47
16) Cfr. G. Tricoli, op. cit., p. 31
Di Michelangelo Ingrassia
Sulla storia del rapporto tra il fascismo e la Sicilia pesa un giudizio storiografico schematizzante, di derivazione gramsciana, che inserisce il fascismo nell'ambito del tradizionale blocco agrario isolano e proteso ad instaurare trasformisticamente un sistema di potere non dissimile da quelli che si erano formati prima dell'avvento del fascismo. Le considerazioni di Gramsci hanno trovato una sponda in quelle di un azionista come Guido Dorso o di un liberale come Piero Gobetti: concordi nell'attribuire le responsabilità dell'arretratezza di tutto il meridione ai compromessi delle classi dirigenti che si erano succedute al governo del paese, ivi compresa quella fascista.(1) Perfettamente inserita in questo quadro storiografico classista e/o morale è la tesi di chi, ancora oggi, si ostina a negare un valore storico e politico alla lotta del fascismo contro la mafia. Così, è stato scritto che "la dittatura fascista offrì alla classe dominante siciliana un'alternativa capace di sostituire e superare negli effetti i metodi mafiosi, come ad esempio la repressione del movimento contadino organizzato".(2) E c'è stato chi ha affermato che se il fascismo, a livello nazionale, ha avuto "stretti legami con la classe agraria (...) in Sicilia, però, la situazione è complessa, essendovi la mafia, che è un sodalizio criminoso da combattere, ma che è al tempo stesso legata alla classe agraria (...) Da qui la necessità (...) di una soluzione di compromesso (...) combattere la mafia, costringendola a non commettere delitti; ma, al tempo stesso, lasciare intatta la sua struttura".(3) La conclusione stupefacente di questo ragionamento a dir poco incredibile è che "la mafia subisce la repressione e non commette alcun omicidio. Precisamente, non uccide: nè il Prefetto Mori, nè il Procuratore Giampietro; nè alcun poliziotto; nè alcun carabiniere; nè alcun magistrato".(4) Quest'ultima osservazione, ancorchè macabra, è storicamente inesatta, perchè la mafia uccise!
Per troppo tempo le vittime fasciste della mafia sono state dimenticate e, dunque, assassinate due volte: dal piombo della lupara e da quello di una storiografia che, con i suoi pregiudizi e le sue distorsioni e contorsioni, non può non definirsi faziosa. Infatti, ancor prima che Mussolini formasse nell'ottobre 1922 il suo governo, in Sicilia cadevano vittime di agguati mafiosi il giovane fascista di Misilmeri (in provincia di Palermo) Mariano De Caro, ed il segretario del Fascio di Vita (nell'entroterra trapanese) Bartolomeo Perricone il quale era succeduto nella carica al fratello Domenico, pure lui assassinato dalla mafia.(5)
Queste vittime fasciste della mafia testimoniano tragicamente la vocazione antimafiosa del fascismo, e fanno comprendere quanto difficile sia stata la penetrazione fascista in Sicilia e contrastata la sua affermazione che, infatti, avverrà in tempi e forme diverse che nel resto d'Italia.
Non poteva essere diversamente dal momento che la realtà culturale e sociale dell'isola era caratterizzata, come ha evidenziato lo storico siciliano Giuseppe Tricoli, da un fenomeno come quello del latifondismo agrario attorno al quale si aggregava "in un blocco più che compatto, grazie alla fitta rete di mediazioni delle cosche mafiose, delle sette massoniche, delle clientele locali, la stragrande maggioranza dell'opinione pubblica siciliana".(6)
In questa realtà conformista e conservatrice i nuovi movimenti culturali ed ideologici come il romanticismo, il liberalismo ed il socialismo erano sì riusciti a penetrare, ma conformandosi ed alla fine integrandosi "nel blocco storico dominante, contribuendo a perpetuare uno stato di sostanziale immobilismo".(7) Invece i fermenti eretici del futurismo, del nazionalismo, del dannunzianesimo e dello stesso fascismo restavano espressione di persone e gruppi isolati e sostanzialmente emarginati "sicchè le loro idee non riuscivano ad avere incidenza politica e tantomeno a formare una base di massa".(8) Non a caso alle elezioni politiche del 1921 mentre nella penisola il fascismo si affermava con notevole successo, in Sicilia addirittura non figuravano liste fasciste; un elemento, questo, chiarificatore di quella precarietà del fascismo siciliano delle origini e della sua estraneità verso quel vecchio mondo del pescecanismo agrario-mafioso.
Ma del resto non era facile inserirsi nel quadro politico siciliano rappresentato dal liberalismo di Vittorio Emanuele Orlando, dalla Democrazia Sociale di Francesco Saverio Nitti e dal socialriformismo. In sostanza, la vecchia italietta passatista e trasformista di giolittiana tradizione aveva nella Sicilia la sua roccaforte grazie alle condizioni sociali e culturali dell'isola che ne avevano favorito il radicamento.
La grande svolta nel rapporto tra fascismo e Sicilia arriva nel 1924, quando ormai è matura nella nuova classe dirigente del paese la consapevolezza che per liberare la Sicilia occorre sgretolare il fronte interno sociale, culturale e politico dell'isola che fa perno proprio nella mafia. Il fascismo, in questa fase, è impegnato su due versanti: da un lato occorre contrastare il tentativo del vecchio blocco di potere isolano di salire sul carro del fascista vincitore, dall'altro è necessario costruire quella presenza dello Stato che nell'isola non c'era mai stata, in modo da far sentire la Sicilia parte attiva dell'Italia. Si tratta, cioè, di riuscire laddove il vecchio Stato liberale era fallito: integrare la Sicilia nella realtà nazionale. Il tributo di sangue pagato dal fascismo originario nella Sicilia inquinata del periodo antemarcia è la prima tappa di questo percorso e la lotta alla mafia, inserita in questo contesto, diventa un problema metapolitico, un dovere morale per il fascismo al potere. Così, già all'indomani della Marcia su Roma, tra il novembre ed il dicembre del 1922, ecco la prima grande azione dimostrativa del fascismo palermitano a Corleone ed a Marineo per protestare contro l'ennesimo eccidio mafioso. E nel marzo 1924, in un famoso comizio tenuto a Palermo, ecco Giovanni Gentile, ministro di Mussolini, assegnare al fascismo siciliano il compito di polverizzare "gli strati ancora spessi di vecchi detriti della corrotta politichetta delle clientele campanilistiche o parlamentari" e di annientare certi "vecchi che sorridono, impettiti, per le loro aderenze coi soliti manipolatori e traffichini che non si danno ancora per vinti".(9)
E sul fronte della vigilanza, ecco i quadri del fascismo siciliano ed i Prefetti dell'isola denunciare in azione congiunta i tentativi d'infiltrazione mafiosa nel Partito Nazionale Fascista.(10) Emblematica in proposito la vicenda dell'onorevole Drago, un deputato socialriformista compromesso con le cosche delle Madonie, il cui improviso e sospetto filofascismo venne denunciato dalla stampa fascista isolana senza tentennamenti. E ancora và ricordata l'intensa attività ispettiva nell'isola di dirigenti fascisti nazionali come Starace (destinato poi a diventare segretario nazionale del Pnf), Rocca e Giunta.
Sono questi i primi segnali della versione siciliana di quella guerra tra la nuova Italia fascista e la vecchia Italia prefascista. In questa battaglia combattuta sul fronte siciliano, la mafia si configura come "il nucleo più ferreo dell'antico blocco egemone";(11) e questo vecchio blocco egemone, per la nuova Italia fascista, si frappone tra lo Stato e l'isola impedendo di portare a termine anche in Sicilia il Risorgimento. Colpire la mafia, quindi, per scardinare questo blocco egemone è la strategia del fascismo per raggiungere l'obiettivo dell'integrazione nazionale dell'isola. Decisiva, a tal fine, è la visita che lo stesso Mussolini compie in Sicilia nel 1924 e che offre al giovane Presidente del Consiglio l'opportunità di avere una presa di contatto diretta con la particolare realtà siciliana. Un contatto ravvicinato simboleggiato dal significativo incontro/scontro con quel don Ciccio Cuccia, sindaco di Piana degli Albanesi e capo-cosca della zona, il quale accoglie il Duce lamentandosi arrogantemente della presenza della scorta ritenuta inutile nel suo paese perchè lì alla sicurezza di Mussolini avrebbe provveduto lui stesso. E' facilmente immaginabile l'indignazione di Mussolini il quale dimostrerà di avere compreso la complessità della realtà siciliana nel momento in cui, qualche giorno dopo, in un comizio ad Agrigento, affermerà: "voi avete dei bisogni di ordine materiale che conosco: si è parlato di strade, di acqua, di bonifica, si è detto che bisogna garantire la proprietà e l'incolumità dei cittadini che lavorano (...) Non deve essere più oltre tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra".(12)
Ora, appare evidente come il vero problema storiografico, nell'ambito del rapporto tra fascismo e Sicilia, non sia quello di misurare il tasso di efficacia della cosiddetta operazione Mori, che sarebbe riduttivo e fuorviante, ma di capire se il fascismo era nel giusto quando sosteneva che per valorizzare la Sicilia, per farla sentire parte della Nazione, occorreva sradicare quel blocco egemone latifondista e conservatore che tanti guasti aveva prodotto financo nella mentalità e negli usi e costumi di tutto un popolo, e che nella mafia trovava il suo aspetto esteriore tangibile ed il suo temibile e temuto gruppo di fuoco. La Sicilia aspettava ancora la terra promessa da Garibaldi all'indomani dello sbarco dei mille; la Sicilia non aveva visto segni di presenza dello Stato italiano; la Sicilia aveva subìto l'indifferenza prima dei Borbone e poi dei Savoia verso il ceto latifondista; i siciliani che sul finire dell'ottocento avevano trovato la volontà ed il coraggio di riscattarsi con la lotta dei Fasci dei Lavoratori, erano stati aggrediti militarmente dallo Stato e abbandonati a sè stessi dal nascente Partito Socialista Italiano. Un errore storico, questo del disinteresse socialista, la cui gravità ancora oggi non viene messa bene a fuoco. Un errore che anche il fascismo rischiò di compiere quando, di fronte al fallimento dei primi tentativi di penetrazione fatti, il Comitato Centrale Fascista affermò in un documento dell'agosto 1922 che la Sicilia sarebbe diventata, nella futura Italia fascista, "il ricettacolo di tutto il marciume che noi cacceremo da Roma".(13)
Questo disinteresse del fascismo verso la Sicilia, inversamente proporzionale al sostanziale disinteresse della Sicilia verso il fascismo ancora alla vigilia della marcia su Roma, smentisce la tesi di Gramsci, Dorso e Gobetti del connubio tra fascismo, classe agraria siciliana e cosche mafiose; tesi peraltro spazzata via dal sangue dei giovani fascisti assassinati per mano mafiosa.
Nel 1922, una volta giunto al potere, il fascismo decide di fare pulizia nell'isola e dichiara guerra alla mafia ed al blocco dominante da questa protetto: ed è una guerra culturale, politica e militare quella combattuta dal fascismo; un gesto di rottura con il passato che si inquadra nell'azione rivoluzionaria intrapresa dal fascismo di portare a termine il Risorgimento italiano integrando la nazione. Un gesto di rottura compiuto su due fronti: contro il tradizionale atteggiamento dei vecchi governi liberali che in Sicilia avevano lasciato fare e lasciato passare; e contro quel blocco sociale, culturale e politico isolano che, approfittando della colpevole indifferenza del vecchio Stato liberale, aveva potuto radicarsi e crescere fino a sequestrare l'isola inglobando e metabolizzando ogni nuovo fermento politico-culturale e annientando col gruppo di fuoco mafioso ogni tentativo di resistenza, compreso quello del giovane fascismo siciliano.
In questa prospettiva, la lotta alla mafia di Cesare Mori non va ridotta ad una semplice operazione di polizia, come pretende una certa storiografia; ma costituisce la prima tappa di un globale rinnovamento della Sicilia chiamata dal fascismo a svolgere un ruolo primario in una rinnovata Italia che, ormai protesa verso l'Africa ed il vicino oriente e la costa adriatica, aspirava al primato di grande potenza mediterranea nel consesso delle nazioni. Con l'azione del prefetto Mori venivano raggiunti gli obiettivi preliminari della strategia fascista: innanzitutto veniva debellata la manovalanza mafiosa; poi veniva scompaginato il blocco egemone relegando nell'angolo dell'impotenza personaggi come Vittorio Emanuele Orlando ed il conte Lucio Tasca (che ricompariranno a guerra finita);(14) infine veniva spezzato l'anello di congiunzione fra cosche mafiose e blocco egemone con l'arresto di decine di sindaci, avvocati, notabili vari, tutti condannati a gravi pene detentive. Tutto ciò dimostra, fra l'altro, che non è vero che il prefetto di ferro si sia fermato in basso; anzi, come ha ammesso recentemente uno storico di sinistra documentando i fatti, "Mori colpì duro anche in alto".(15)
L'azione di Mori si esaurì nel momento in cui il prefetto rese innocuo il gruppo di fuoco mafioso e mise in crisi l'alleanza tra latifondisti, vecchi politici e cosche mafiose. E' questo il momento in cui quel blocco egemone siciliano, che era il vero bersaglio culturale e politico del fascismo, rimasto privo del gruppo di fuoco mafioso col quale proteggersi ed intimidire e non avendo più a disposizione quegli elementi mafiosi infiltrati nelle istituzioni isolane, venne sconfitto. Terminata la fase giudiziaria e repressiva, il fascismo continuò la guerra di liberazione della Sicilia attraverso un'azione amministrativa, una bonifica psicologica, un'azione educativa ed una bonifica economica e sociale che, iniziate con un efficace piano di realizzazione di opere pubbliche, culminarono nel 1940 con la legge contro il latifondo. I siciliani videro finalmente uno Stato che costruiva le infrastrutture, che modernizzava l'isola con il risanamento delle città e con la costruzione di dighe, strade, ospedali, case, aeroporti; videro uno Stato che attraverso l'Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano colpiva gli interessi dei latifondisti; videro un'Italia che considerava la Sicilia come il centro geografico dell'impero, per usare un'espressione di Mussolini.
Alcune considerazioni rapide e finali per smentire i luoghi comuni di una storiografia viziata ed ormai avariata. Non è vero che dopo Mori il fascismo abbassò la guardia nella lotta contro la mafia: ancora nel 1935 a Cattolica Eraclea venivano arrestati 245 mafiosi; altri 211 mafiosi operanti tra Favara e Palma di Montechiaro sarebbero finiti in prigione due anni più tardi.
Una certa storiografia presenta Mori come antifascista: giova ricordare che il prefetto di ferro fu uno dei pochi a restare al suo posto durante la crisi Matteotti rinnovando così la propria fiducia a Mussolini. La stessa storiografia utilizza il coinvolgimento di Alfredo Cucco, uomo di punta del fascismo siciliano, nelle indagini di Mori per dimostrare presunte connivenze del fascismo che avrebbero interrotto l'azione del prefetto, non è così: Cucco si difese per decenni nelle aule di giustizia e, pienamente assolto, venne riammesso nel Pnf soltanto nel 1940; seguirà Mussolini nella Rsi e sarà tra i fondatori del Msi in Sicilia; l'attacco di Mori a Cucco muoveva, come ha documentato lo storico Giuseppe Tricoli, dal modesto fatto che ambedue volevano guidare il movimento antimafia del fascismo per mettersi in luce.(16)
A questo punto è arrivato il momento di riconoscere serenamente che il fascismo, in Sicilia, combattendo la mafia, si incaricò di squarciare quel muro di indifferenza astorica e conformista che una Sicilia sequestrata per lunghi anni da una oligarchia politico-sociale aveva eretto contro lo Stato. Su questo muro il fascismo riuscì ad aprire una crepa e segnò un'epoca, interrotta nella notte tra il 9 ed il 10 luglio 1943 quando la più grande flotta alleatà aggredì la costa siciliana con la complicità di quegli elementi mafiosi che il fascismo aveva cacciato dall'isola. Fu così che quei gabelloti che un accordo del 1927 tra Confederazione Fascista dei Lavoratori Agricoli e Federazione dell'Agricoltura aveva eliminato dalle campagne siciliane, alle campagne arrogantemente tornarono nel 1943 con il sostegno degli Alleati in uno scambio perverso di favori. Ma questa è un'altra storia.
NOTE
1) Si segnalano in proposito: A. Gramsci, Sul Fascismo, Roma 1973; G. Dorso, Mussolini alla conquista del potere, Verona 1949; P. Gobetti, Opere Complete, Torino 1960, vol. I.
E' nel pensiero di questi scrittori politici l'origine culturale di quel pregiudizio storiografico sull'azione del fascismo in Sicilia che, tramandatosi nel tempo, ancora oggi sopravvive.
2) I. Sales, La camorra le camorre, Roma 1988, p.113
3) G. Montalbano, Sicilia autonoma, Palermo 1986, p. 180
4) ibidem, p. 181
5) Una rievocazione delle vittime e degli agguati è rintracciabile in: G. F. Di Marco, Clima di un'impresa storica, Palermo 1937, pp. 93 - 95
6) G. Tricoli, Il fascismo e la lotta contro la mafia, Palermo 1989, p. 6
7) ibidem
8) ibidem, p. 7
9) G. Gentile, Il fascismo e la Sicilia, discorso pronunciato al Teatro Massimo di Palermo il 31 marzo 1924; il testo completo nella prima pagina del giornale pomeridiano palermitano L'Ora del 31 marzo/1 aprile 1924
10) cfr. G. Tricoli, op. cit., p. 16
11) ibidem, p. 18
12) Il discorso del Duce è riportato in: B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di D. Susmel, Firenze 1963, vol. XX, p. 264
13) cfr. G. Tricoli, op. cit., p. 12
14) In un comizio tenuto a Palermo nell'estate 1925, in occasione delle locali elezioni amministrative, così si esprimeva Vittorio Emanuele Orlando leader della coalizione antifascista: "Or io dico, signori, che se per mafia si intende (...) la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte (...) mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo". Cfr. Il Giornale di Sicilia, 28/29 luglio 1925; il brano è citato anche in: A. Petacco, Il prefetto di ferro, Milano 1975, pp. 76 - 77. Del cavaliere Tasca, che nel 1943 sarà sindaco della Palermo amministrata dagli Alleati, ci limitiamo a ricordare un suo libello dal titolo significativo: Elogio del Latifondo che fu il testo sacro del ceto agrario siciliano
15) Cfr. G. C. Marino, Storia della mafia, Roma 1997, p. 47
16) Cfr. G. Tricoli, op. cit., p. 31
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