martedì 14 ottobre 2008

IO MAFIO, TU MUORI – DIMMI COME PARLI E TI DIRÒ COME SPARI - BUTTAFUOCO COMMENTA IL LIBRO DI BOLZONI SUL LINGUAGGIO MAFIOSO



Pietrangelo Buttafuoco per "Il Foglio"


"Ecco, lo dico: il danno". In principio era il Verbo, alla fine ci sarà la Rivelazione ma in mezzo - nel frattempo - c'è la Mafia con le sue parole d'onore. Saranno i filologi i poliziotti che metteranno capo al crimine organizzato. E ce ne vorranno di esperti in lingua cinese, russa ed altri ancora, conoscitori dell'idioma giudaico, per persuadersene di mafia cinese, russa ed ebraica perché l'ontologia del sangue criminale è tutta svelata nel linguaggio. Dimmi come parli e si capirà come spari. Si capisce sempre come si spara perché la mafia, infine, di qualunque latitudine sia, già ontologicamente prevede un unico possibile sbaglio: quello di sbagliare a parlare.
In principio era il Verbo, alla fine ci sarà la Rivelazione ma in questo frattempo, di quella siciliana, intesa come Mafia, tutta la scienza occorrente di segni, codici e idiomi è già codificata e un libro degno della Schola Palatina di Carlomagno è, appunto, "Parole d'onore" di Attilio Bolzoni (Bur, euro 12,00). Il sottotitolo è già un ghiotto antipasto: "Le voci di Cosa Nostra. Il gergo dei suoi uomini. Fra riti e tragedie, mezzo secolo di mafia nella parlata dei mafiosi".
"Ecco, lo dico: il danno". Inutile dire che fior di filologo s'è rivelato Bolzoni, giornalista di Repubblica, coautore con Giuseppe D'Avanzo dello strepitoso libro "Il capo dei capi", testo base dell'ancora più magnifico film con Claudio Gioè nei panni di Totò Riina. Un filologo armato di bisturi nella carne viva di un'aberrazione qual è il dominio dell'uomo sull'uomo, questo è Bolzoni. Un filologo mai compiaciuto ma neppure - e non vorremmo urtarne la sensibilità - fanatizzato dalle malie dell'antimafia declamatoria. Tutto, infatti, è catalogo. Mai un sopracciò moralistico, mai un acuto retorico né un climax di quel genere civil-legalitario che spesso - alla fine della fiera - butta molta più gente tra le braccia della mafia di quanti, di mafiosi, ne dovrebbe buttare in galera.
"Ecco, lo dico: il danno". In principio c'è quel verbo, mafiare, e siccome non c'è verso di penetrare il mistero del Male privo di pietà, se non con il lavoro certosino dell'amanuense che scava dentro le parole, questo nuovo saggio di Bolzoni è come un manuale, un libro di scuola a metà tra il dizionario e un codice d'ermeneutica per afferrare il bandolo aggrovigliato del silenzio criminale. A proposito di chirurgia, commozione e filologia, antideclamatorio e perciò efficace nel fare capire che cos'è veramente la Mafia, è il capitolo "Non siamo stati noi".
Un uomo su una Kawasaki chiama un bambino di undici anni, Claudio Domino, quello si avvicina e con un colpo di pistola alla fronte viene ucciso. Sono le ventuno del 7 ottobre 1986. A Palermo nessuno sa intendere il perché di un omicidio così brutale. L'indomani si apre il dibattimento in Corte d'assise del maxiprocesso ai boss mafiosi, Giovanni Bontade chiede la parola al presidente Afonso Giordano: "Signora Presidente", dice il boss, "anche noi abbiamo figli... noi non c'entriamo niente con questo omicidio, non siamo stati noi, è un delitto che ci offende e ci offende ancor di più il tentativo della stampa di attribuirne la responsabilità agli uomini processati in questa aula...".
"Ecco, lo dico: il danno". Riportandoci al centro di questa scena Bolzoni - con gli attrezzi della chirurgia filologica - ci svela il senso di un segno inedito e inaudito: "E' la prima volta che un mafioso siciliano pronuncia quella parola: noi". Come in tutte le cose di Sicilia dove tutto è mistero, allo stesso modo (come sempre), tutto finisce in verità. L'autenticità degli eventi, infatti, avrà la sua rivelazione in un preciso fatto: un rosticciere, Salvatore Graffagnino, sparisce.
Forse quello che manca in Sicilia è la sentenza di Stato, ma le cose autentiche ci sono ed è con i fatti che il rosticciere viene levato di mezzo dalla mafia. E' lui, infatti, il mandante dell'uccisione del bambino. Una storia terribile: era l'amante della madre del bimbo. E il piccolo Claudio, che li aveva visti insieme, viene ammazzato come un vitello: con un colpo in fronte. "Una storia infame" scrive Bolzoni. Una storia che attende ancora il terzo atto. Un anno dopo viene ucciso Giovanni Bontade. Non certo per una faida da ricondurre al rosticciere. Ma per aver fatto quel comunicato al processo. Per aver pronunciato la parola "noi".
"Ecco, lo dico: il danno". Il noi non esiste nella mafia. Il noi è una chiamata di correo. E tutti noi - noi che nella dolente terra di Sicilia ci rinfreschiamo la bocca dell'anima e quella della coscienza ¬- reclamando la redenzione facciamo sempre i conti con l'ironia, anche involontaria. A noi può sempre capitare di parlare con la persona sbagliata, può capitare di baciare male e di parlare al telefono tra mille fraintendimenti di lingua e linguaggio. Con tutti quelli che circolano intorno a "noi", insomma, come possiamo capacitarcene?
E se possiamo portare ad esempio un aneddoto, raccontiamo di Vincenzo Pirrotta, grandissimo interprete di Euripide, l'autore de "La ballata delle balate", attore potentissimo e nativo in quel di Partitico, luogo principe di "noi", adesso alle prese con la sublime poesia di Ibn Hamdis. Pirrotta racconta sempre di quando suo padre lo subissò di legnate a causa di certe frequentazioni del ‘noi': "E meno male", rivela adesso, "altrimenti, altro che Ibn Hamdis, di sicuro nel 41bis sarei".
"Ecco, lo dico: il danno". I "noi" hanno un solo luogo perché i tanti luoghi della pluralità procurano confusione, caos, pazzia e Bolzoni che nel suo procedere da clinico della parola ha avuto il genio di fare esperimenti di filologia dal vivo, con Tanuzzo Riina nientemeno, il fratello del più noto Capo dei Capi, lavorando di fino gli ha strappato una sentenza degna di Ciampa lo scrivano, l'eroe pirandelliano del Berretto a Sonagli. E dunque, tenete a mente la scena. Siamo a Corleone. Bolzoni, bravissimo, incalza Tanuzzo a proposito di Tommaso Buscetta, il pentito attraverso cui Giovanni Falcone con Gianni De Gennaro e la Dia sfasciarono Cosa Nostra.
Tenete a mente la scena dunque, la piazza di Corleone (il paese che ha dato il nome a Don Vito, il Padrino). E tenete a mente il rovinio di domande: e chi è, chi non è e cosa ne pensa vossia di Buscetta? Ebbene, giudichi il lettore se non ci troviamo di fronte ad un Ciampa redivivo. "Buscetta ha viaggiato, è stato in Continente, a Milano e a Torino. E' andato a New York. E poi in Brasile".
"Ecco, lo dico: il danno". Tanuzzo tira la somma sotto a tanta confusione di geografia, inghiotte l'intero mappamondo in un sospiro e sussurra: "Ha visto il mondo e gli è scoppiato il cervello". Un vero colpo di genio. E tanto torto, in coscienza, non gli si può dare a Tanuzzo. Con parole "dell'altro mondo", infatti, fa capire come l'archetipo rurale arriva dove la modernità cosmopolita arranca. Per la descrizione di questo cervello che si spappola tra femmine carioca e gangster di Nuova York, manco ottanta sedute di Terapie & Pallottole potrebbero bastare e invece Tanuzzo c'indovina: potremmo adesso avventurarci nella psichiatria? Atteniamoci alla filologia piuttosto.
"Ecco, lo dico: il danno". Il libro di Bulzoni è naturalmente frutto di un lavoro giornalistico di altissimo livello ma pur trattando di cronaca, sangue e misteriose trame, proprio in virtù del linguaggio, non manca di assolvere a ciò che dai tempi dei Beati Paoli ormai, la Mafia fa: si fa leggere con piacere. I personaggi ci sono tutti, l'intera scala dei sentimenti si squaderna sulla pelle di una storia orba di lieto fine, il male dilaga tra infiniti reticoli di menti raffinatissime e le parole d'onore poi, sono un impasto di fango e ingegno, un'epica geometricamente perfetta. E maligna.
"Ecco, lo dico: il danno". Quel verbo del principiare a mafiare è un magnete irresistibile per il grande pubblico, una manna per la scena internazionale tanto è vero che quel confine tra vero, verosimile e finzione viene scavalcato da Bolzoni mettendo a pari merito, tra i padrini, quello cinematografico di Francis Ford Coppola. Ed è davvero improba cosa in tema di mafiata distinguere tra bugiarderia e verbali d'interrogatorio, tanto è potente questo linguaggio fatto di gesti e motteggi mutangoli, impasti di quella pasta afona che è lo scruscio, il frastuono silenzioso della paura, ovvero: "tutta una puliziata di piedi". Il libro di Balzoni consta di cinque grossi capitoli.
Nell'ordine: La tradizione, la tragedia, lo stato, il silenzio e il futuro. Il volume si accompagna con una citazione di Angelo Nicosia, parlamentare della commissione antimafia 1963-1976: "Le massime aspirazioni del siciliano sono tre: mangiare carne, cavalcare carne, comandare carne" e siccome la citazione non può cadere così, ricordiamo alcuni dettagli: Angelo Nicosia - protagonista della lotta alla mafia - venne pure accoltellato in piena Palermo. Uomo dallo stampo nobile, degno erede di Cesare Mori, fu parlamentare del Msi. Ma torniamo al libro.
"Ecco, lo dico: il danno". In questo ricco piatto di vicende dolorosissime ogni lettore può crearsi un viaggio credibile e incredibile dentro la storia e la mitologia contemporanea. Attraverso le parole d'onore, infatti, si possono sentire i frammenti di un canovaccio che sconfina anche nella commedia all'italiana. E come catalogare altrimenti la vicenda dell'eterno golpe Borghese?
"Se in Italia c'è la democrazia dovete ringraziare me" urla da una gabbia Luciano Liggio mentre assapora tra le labbra e i denti un appetitoso sigaro. Nell'estate del 1970 il principe Junio Valerio Borghese - comandante, sia detto per inciso, di Mauro de Mauro, il giornalista dell'Ora ucciso dalla mafia - chiedeva l'aiuto della cupola per portare a termine l'operazione Tora Tora, ossia la conquista di prefetture, questure, caserme e sedi Rai e l'abolizione della democrazia in tutta Italia. Per far questo il principe chiede alla mafia un elenco completo di nomi, affiliati e capi, famiglia per famiglia. E non solo: faceva anche richiesta che i picciotti portassero una fascia verde al braccio in segno di riconoscimento. Praticamente, povero principe, venne preso a fischi e piriti (leggi: peti).
"Ecco, lo dico: il danno". Una sceneggiatura da "Vogliamo i colonnelli" che non poteva trovare comparse tra i Pippo Calderone, Giuseppe Di Cristina e lo stesso Liggio che però colse l'occasione di tentare la carta estrema tanto cara ai giochi di potere in Italia, quella del "buttarsi a sinistra" nei momenti di difficoltà. E per buttarsi a sinistra ben bene, Liggio ci fece pure un discorso, questo: "Io non voglio scoprire il sederino a nessuno ma visto che il signor Buscetta nega l'ospitalità che gli ho dato a Catania, vi devo parlare di affari di Stato.
Nell'estate del 1970, lui e Totò Greco vennero da me per ragioni politiche. Avevano un progetto grandioso e megalomane per sovvertire lo Stato, certi politici promettevano cose grosse, volevano arruolare due, tre, diecimila uomini ma io a un certo punto mi rifiutai di rivederli. Presidente, queste cose il signor Buscetta non ve le ha mai dette, eh?. Non ho voluto portare l'Italia alla dittatura, se oggi c'è la democrazia dovete ringraziare me".
A parte il rammarico della mancata operazione Tora Tora c'è da segnalare come anche in questa occasione il linguaggio svelò un capovolgimento perfino ironico. "Ecco, lo dico: il danno". Commedia all'italiana o no, Liggio, prendendo la parola in quel 15 di aprile del 1986, aveva fatto uno sgarro. Gli arriva un biglietto e non sbaglierà a parlare mai più. "Fumati il sigaro ma fatti il carcerato". Così si leggeva nel pizzino recapitatogli.
"Ecco, lo dico: il danno". Era un personaggio molto carico il Liggio, col merito di avere hegelianamente definito per antitesi quella sintesi mai trovata tra gli archivi della giudiziaria nazionale. Invitato a deporre davanti alla commissione parlamentare antimafia, alla domanda del presidente: "Signor Liggio, secondo lei, esiste la mafia?", Liggio rispose: "Signor presidente, se esiste l'antimafia...".
E Liggio, forse più di Buscetta, ha un certo uso di mondo. Ha innanzitutto il debole per la filosofia. Sembra Achille Campanile quando sentenzia così: "Socrate è uno che ammiro perché come me non ha scritto niente". Pittore di quadri chissà dove finiti, Liggio non scriveva ma leggeva. Oculatamente solo alcune pagine: "Dei giornali leggo solo la terza pagina. Racconti e qualche recensione. Il resto è falso".
Ovviamente Liggio non poteva immaginare cosa sarebbero diventate le terze pagine oggi, ancora più false di tutto il resto del giornale ma la sua vena surreale è proprio gustosa: "Ho finito per odiare i sarti da quando sento dire: il giudice si mantiene abbottonato... Insomma, finisco per odiare i sarti perché non sanno abbottonare questi vestiti dei giudici. Sembra che ci lascino sempre gli occhielli aperti, non so, ma si aprono...". Un vero maestro della maieutica, il Liggio, maestro di Totò Riina peraltro, autore della sentenza massima in tema di dannazione criminale: "La curiosità è l'anticamera della sbirritudine". Guizzi di sicilitudine, manco a dirlo.
"Ecco, lo dico: il danno". La mafia che è materia di filologia può ben sostenere le disquisizioni sugli universali e la questione del nominalismo. La mafia è solo un flatus vocis, così a tal punto puro fiato di voce che Michele Greco, altrimenti noto come "il Papa", se ne dispera: "Mi accusano tutti solo perché il mio nome fa cartellone. Se anziché chiamarmi Michele Greco, mi chiamassi Michele Roccappinnuzza, io non mi troverei qui all'Ucciardone". Un ragionamento degno di Porfirio di Tiro, manco a dirlo.
"Ecco, lo dico: il danno". E di questo danno, infine, dobbiamo svelarne l'arcano, è un paragrafo che riprende l'interrogatorio di un banconista da bar chiamato a testimoniare dopo l'uccisione di Nenè Geraci, capomafia di Partinico. Domanda dell'avvocato: "Che cosa è successo?". Risposta: "E' successo che c'è stato... questo fatto che è successo. Diciamo... diciamo il... il danno". Ancora domanda: "Il danno?". Risposta: "Ecco, lo dico: il danno". Domanda finale: "Ci fu una sparatoria?". Risposta: "Mi... mi perdoni. Siccome, allora, le ripeto a dire: io ero sopra il banco a servire il caffè. Ora, siccome il bar la domenica mattina è sempre affollato. Sia la gente che è esterna, che parla di partite di calcio. Sia la gente che è interna che si consuma la rosticceria... quello che è successo l'hanno saputo all'esterno ed è entrato all'interno e poi se ne sono andati tutti via".
Ecco, l'abbiamo raccontato: il danno. Tra i protagonisti di questa grande mafiata il lettore troverà ovviamente Giulio Andreotti e la celeberrima scena della baciata con Riina e troverà anche Silvio Berlusconi, interessato a fare acquisti immobiliari in quel di Palemmo ma d'altronde - si sa - "iddu pensa sulu a iddu". Forte del conflitto d'interessi, Berlusconi che è iddu, pensa solo a se stesso e questa lettura di filologia e semiotica non può chiudersi che con uno striscione issato allo stadio della Favorita il 22 di dicembre del 2002: "Uniti contro il 41bis. Berlusconi dimentica la Sicilia". Sopraddetto. Unicamente parlando. Praticamente lui.

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