mercoledì 24 dicembre 2008

LA SCORIA SIAMO NOI – FERMI TUTTI: "Mussolini morì suicida, in un dente celava una capsula di cianuro"

LA SCORIA SIAMO NOI – FERMI TUTTI: "Mussolini morì suicida, in un dente celava una capsula di cianuro" - Gliela consegnò Adolf Hitler in persona poche ore dopo l’attentato a Rastenburg – LA PROVA: ABITI privi dei fori delle pallottole…


Stefano Lorenzetto per "Il Giornale"

«Questa è una storia che nessuno vuole raccontare, ma che riguarda ciascuno di noi. È una storia che tocca tre generazioni: quella dei ventenni che fa finta di saperla, quella dei quarantenni che fa finta di ricordarla e quella dei sessantenni che fa finta di averla dimenticata». La storia che Alberto Bertotto racconta, «una ragionevole provocazione dedicata a chi ama il mistero della verità», non è facile da credere: Benito Mussolini si sarebbe suicidato masticando una capsula di cianuro.

Gliela consegnò Adolf Hitler in persona poche ore dopo l'attentato a Rastenburg. Nel pomeriggio di quel 20 luglio 1944 il capo del fascismo, intimidito dal Führer, era stato costretto a farsela impiantare seduta stante in un dente finto da un medico tedesco. Lo scetticismo aumenta quando si scopre che questa rivelazione fu fatta più di trent'anni fa dal fantasma del Duce a un sensitivo genovese, Athos Agostini, il quale il 10 luglio 2007 l'ha messa nero su bianco e depositata da un notaio.

Senonché Bertotto ha trovato molti elementi che la suffragano, a cominciare dalla testimonianza di Elena Curti, 86 anni, figlia naturale di Mussolini, che vive ad Acquapendente (Viterbo) e che il 27 aprile 1945 durante la fuga verso la Valtellina sedeva accanto al padre nell'autoblindo fermata dai partigiani sulle rive del lago di Como.

Alberto Bertotto, 63 anni, storico per passione, è un pediatra in pensione, originario di Biella, che ha messo nelle sue ricerche lo stesso rigore dispiegato per un trentennio nella cura dei piccoli pazienti in ospedale. Professore universitario di clinica pediatrica fino al 2002, prima a Pavia e poi a Perugia, dove abita tuttora, ha all'attivo oltre 250 pubblicazioni scientifiche. Ma di lui si parlerà molto per questo volume di 287 pagine, "La morte di Mussolini, una storia da riscrivere", che arriva adesso nelle librerie per i tipi della casa editrice Paoletti D'Isidori Capponi di Ascoli Piceno.

In precedenza aveva scritto "Mussolini estremo". E l'anno prossimo uscirà "L'odissea di Mussolini", in cui ricostruisce i 50 giorni del 1943 che andarono dalla caduta del fascismo alla liberazione del Duce sul Gran Sasso.

Nostalgico?
«Sono un agnostico della politica. Non vado neppure a votare».

Allora perché questo interesse per Mussolini?
«È un puro interesse intellettuale, da giallista. Nessuna persona provvista di buon senso può bersi la vulgata, per usare una definizione del professor Renzo De Felice, con cui il Pci voleva farci credere che Mussolini e la sua amante Claretta Petacci fossero stati uccisi alle 1

6.20 del 28 aprile 1945 davanti al cancello di villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, dal comunista Walter Audisio, alias colonnello Valerio, affiancato da Michele Moretti, detto Pietro, e Aldo Lampredi, detto Guido. Una cosa è ormai certa: il colonnello Valerio fucilò due cadaveri morti da un pezzo».

Come fa a dirlo?
«Non lo dico io. Lo sospettano, oltre a De Felice, storici come Franco Bandini, Luciano Garibaldi, Giorgio Pisanò, Alessandro Zanella, Sergio Bertoldi. Questo Audisio era un pover'uomo, anzi un poveraccio, che negli anni diede quattro diverse versioni dell'accaduto, adattandole in corso d'opera a mano a mano che venivano confutate».

I punti deboli quali sono?
«Audisio dice nei suoi libri che fece sedere Mussolini e la Petacci su una panca di pietra all'ingresso di villa Belmonte: quella panca non esiste. Audisio dice che il Duce, prima dell'esecuzione, biascicò tremante: "Ma, ma... signor colonnello...". Come poteva il condannato conoscere il grado da partigiano del suo carnefice? Audisio dice: "Poi fu la volta della Petacci, che cadde di quarto a terra sull'erba umida".
Davanti al cancello c'era solo asfalto. Lampredi nel 1966 dichiara all'Unità che Mussolini si aprì il cappotto e gridò: "Sparami al cuore!". Moretti nel 1995 racconta al giornalista Giorgio Cavalleri che le ultime parole del Duce furono: "Viva l'Italia!"».


Chi decise l'esecuzione?
«L'immediata fucilazione fu deliberata dal Cnlai, Comitato di liberazione Alta Italia, cioè da Luigi Longo per il Pci, da Sandro Pertini per il Psi e da Leo Valiani per il Partito d'azione. Del resto lo stesso Palmiro Togliatti aveva dichiarato alla radio che non era necessario alcun processo, bastava la sola identificazione. Furono interpellati i partigiani più carismatici, ma tutti rifiutarono l'ingrato compito: Italo Pietra, che nel dopoguerra diventerà direttore del Giorno, era uno di loro.
La scelta di far fuori Mussolini, l'amante e gli altri gerarchi fascisti alla fine cadde su Audisio, che come rappresentante della polizia militare nel Cnlai non poteva sottrarsi all'incarico».

Stando alla «vulgata», come andarono i fatti?
«Mussolini è catturato a Dongo alle 15.30 del 27 aprile dalla 52ª brigata Garibaldi. Il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle, detto Pedro, un monarchico, d'accordo col generale Raffaele Cadorna, figlio di tanto padre e comandante dei Volontari della libertà, vorrebbe consegnarlo agli Alleati. Ma nella notte arriva il cinico contrordine dello stesso Cadorna, che s'è piegato alla sentenza dei comunisti: "Fate fuori lui e la sua ganza".

Il Duce e la Petacci vengono portati a Bonzanigo, nel cascinale dei contadini Giacomo e Lia De Maria. Due partigiani restano di guardia. Alle 14 del 28 aprile da Milano arriva Audisio, che alle 16.20 procede all'esecuzione in assenza di testimoni.

Prima incongruenza: perché gli altri 15 gerarchi furono invece allineati sul lungolago di Dongo e fucilati alla schiena davanti alla folla? Il dittatore non meritava forse più di loro il pubblico ludibrio? Audisio dipinge quella dei De Maria come "una casetta incastonata tra i monti". Assurdo: era la più grande costruzione di Bonzanigo, ben visibile da lontano. E confonde le strade in salita con quelle in discesa. Conclusione: lì non c'è mai stato e s'è pure fatto descrivere male i luoghi».

Lei che cosa ipotizza?
«Sono partito dagli abiti che il Duce indossava al momento della fucilazione: camicia nera, divisa da caporale d'onore della Milizia senza gradi, pastrano grigioverde. Così lo si vede anche nel film "Mussolini ultimo atto" di Carlo Lizzani. Il regista si servì della consulenza di partigiani comunisti, quindi devo credergli. Ebbene, il cadavere scaricato a Milano, a piazzale Loreto, aveva invece un giaccone di foggia borghese con maniche raglan. Mancava la giacca della Milizia: perché? Non solo: pantaloni, camicia e giaccone erano intatti, privi dei fori delle pallottole, a differenza della sottostante maglia della salute e dei mutandoni di flanella, insanguinati e bucati. Un controsenso».


Da che cosa ha dedotto l'assenza di fori?

«Dalle foto eseguite a piazzale Loreto e all'obitorio. Il professor Giovanni Pierucci, ordinario di medicina legale a Pavia, le ha analizzate con la tecnica digitalizzata dell'arricchimento dell'immagine. Questo porta a concludere che Mussolini sia stato ucciso nella casa dei De Maria mentre era in déshabillé, con colpi sparati a non più di 30-40 centimetri di distanza. Il che avvalora la testimonianza di Dorina Mazzola».


Chi è Dorina Mazzola?
«Una signora, oggi defunta, che abitava a 300 metri dalla cascina. All'epoca dei fatti aveva 19 anni. A Giorgio Pisanò, che la scovò nel 1996, raccontò che la mattina del 28 aprile sentì urlare Lia De Maria: "Non si fanno queste cose in casa mia!". Udì due spari. Poi vide un uomo calvo trascinato da due partigiani che lo afferravano per le ascelle e una donna che cercava di trattenerlo per i piedi, piangendo: "Che cosa vi hanno fatto, come vi hanno ridotto...".

Prima d'essere freddata a sua volta, la poveretta riuscì a strappargli lo stivale destro. La Mazzola non poteva sapere che si trattava di Mussolini e della Petacci. Ne deduco che il Duce venne ucciso in maglietta e mutandoni. A due-tre ore da una morte violenta subentra la rigidità catalettica, una "lignea statuarietà" scrisse il dottor Aldo Alessiani, medico legale perito del tribunale di Roma, insomma la salma diventa dura come il baccalà e rimane tale per 24-36 ore. Ecco perché fu rivestita con un giaccone dalle maniche raglan, molto ampie, che poteva essere facilmente maneggiato anche da chi non aveva familiarità con la vestizione di cadaveri. La giacca della divisa con le maniche a tubo era più difficile da far indossare».

Diamo invece per buona la versione di Audisio.
«Se Mussolini fosse stato fucilato alle 16.20 del 28 aprile, fino al tardo pomeriggio del giorno seguente la salma sarebbe apparsa irrigidita. Invece Alessiani notò che era rilasciata e ne arguì che il dittatore doveva essere morto intorno alle 5.30. E si soffermò in particolare sul "lubrico braccetto": alle 14.30 del 29 aprile fu scattata all'obitorio una fotografia in cui i partigiani intrecciarono il braccio sinistro della Petacci col braccio destro del Duce, come se i due cadaveri stessero andando a spasso. Le teste delle vittime erano ciondolanti, tanto da dover essere sorrette. Una turpe messinscena incompatibile col rigor mortis».


E il sensitivo Athos Agostini che cosa c'entra in tutto questo?
«Innanzitutto non si tratta di un medium, ma di uno stimato commerciante. Non evoca gli spiriti: vive queste esperienze contro la sua volontà. Mi ha cercato dopo aver letto un mio articolo sul mensile "Storia del Novecento". Non aveva mai raccontato a nessuno quello che gli era capitato. Una notte di settembre del 1975, o del1976, mentre con la moglie e la figlia era in vacanza all'hotel Du Lac di Varenna, sul lago di Como, gli apparve in camera un uomo con le sembianze di Mussolini.

Questa figura evanescente gli raccontò che cosa accadde all'alba del 28 aprile 1945. Claretta, mestruata, si allontanò per andare in una rustica toilette posta nel cortile di casa De Maria. Si tolse le mutandine sporche di sangue, il che giustificherebbe la mancanza dell'indumento intimo sulla salma oltraggiata a piazzale Loreto. Il Duce approfittò di quel frangente per estrarre dal dente la capsula di cianuro e romperla fra i molari, ma il veleno non sortì all'istante l'effetto sperato. Al suo rientro incamera, vedendo Mussolini con la bava alla bocca e convulsivante, esiti tipici dell'acido cianidrico, Claretta si mise a urlare. Sopraggiunse uno dei partigiani di guardia, Giuseppe Frangi, detto Lino, che sparò al moribondo».

Ammetterà che gli spiriti non possono entrare nella storiografia.
«Lo ammetto eccome. Ma il signor Agostini sostiene anche d'aver visto nel 1999, o nel 2000 o nel 2001, su Raitre, a tarda sera, un documentario in cui un medico statunitense parlava delle tracce di cianuro trovate nel cervello del Duce. Oggi non ricorda il nome del programma. A quel tempo Agostini scrisse alla Rai per ottenere la videocassetta. Non gli fu consegnata. Allora diede incarico all'avvocato Riccardo Dellepiane di ripetere la richiesta: nessun esito.

Poiché l'unica copia di quella lettera fu poi consegnata dal legale al suo cliente, che l'ha smarrita durante un trasloco, sono stato autorizzato da entrambi a recuperare dalla Rai l'originale, in modo da risalire al titolo della trasmissione. Francesca Cadin del servizio Teche ha risposto che le missive dei privati non vengono protocollate e finiscono nell'archivio cartaceo di Pomezia: 600 metri quadrati di scartoffie. Impossibile ritrovarla».

Nel 1999 il professor Pier Gildo Bianchi, l'anatomopatologo che esaminò il cervello di Mussolini, mi disse che non ci trovò niente di strano: «Era il normalissimo encefalo di un sessantenne». E i relativi vetrini molti anni dopo furono gettati per sbaglio nella spazzatura da un necroforo dell'obitorio.
«Sì, ma è anche vero che il dottor Calvin Drayer, maggiore medico e consulente psichiatra, chiese a nome del direttore generale di sanità dell'esercito Usa un campione di tessuto cerebrale del Duce. Due pezzi di cervello vennero spediti a Washington: uno al dottor Winfred Overholser, direttore dell'ospedale psichiatrico Santa Elisabetta, e uno al dottor Webb Haymaker dell'Army institute of pathology, oggi Walter Reed Army medical center.

La relazione ufficiale del primo esame non è mai stata resa nota; quella del secondo venne diffusa solamente nel 1966 per precisare che non c'erano tracce di malattie che spiegassero "il perché Mussolini si comportò in un certo modo dittatoriale", cioè tracce di sifilide, era questo che sospettavano gli americani. Ho consultato entrambi gli istituti: il primo mi ha replicato che non furono trovate prove di intossicazione acuta da acido cianidrico; il secondo ha negato che nei propri archivi vi siano referti di indagini autoptiche sul cervello del Duce. Curioso no?».

Perché i De Maria, a distanza di anni, non avrebbero dovuto raccontare la verità su ciò che avvenne nella loro casa di Bonzanigo?
«È la stessa domanda che ho posto due mesi fa alla vedova di Giovanni De Maria, l'ultimo dei due figli della coppia. Mi ha risposto: "Guardi, professore, il mio Giovanni in tanti anni di matrimonio non ha detto nulla neppure a me". Come se fosse minacciato».

Lei ha parlato anche con Elena Curti, figlia naturale del Duce.
«Un'anziana lucidissima. Sua madre, Angela Cucciati Curti, la ebbe da Mussolini dopo la separazione dal marito. Durante la Repubblica sociale, Elena era stata messa dal padre a lavorare nella segreteria di Alessandro Pavolini. Mi ha detto: "La mattina del 28 fui portata nella caserma dei carabinieri a Dongo. Entrò il partigiano Osvaldo Gobbetti, che mi apostrofò in questo modo: "Ti abbiamo ammazzato il tuo Duce. Aveva cercato di suicidarsi, ma noi l'abbiamo trascinato fuori e fucilato".

La Curti mi ha anche riferito che suo padre era terrorizzato dall'idea di finire vivo nelle mani degli angloamericani. Temeva che lo esponessero dentro una gabbia a Madison Square, come un animale. Questo dimostra che fu padrone della sua vita fino in fondo. Una versione che, dal punto di vista della destra, attesterebbe la grandezza di Mussolini».

Grandezza? A me il suicidio pare un atto di codardia.
«Concordo. Fu un gesto di egoismo che va a discredito di Mussolini. In questo modo sapeva di condannare a morte la Petacci. Mai e poi mai i partigiani avrebbero lasciato viva la testimone di un evento tanto scomodo».

giovedì 18 dicembre 2008

LA LEGISLAZIONE SOCIALE DEL FASCISMO






di Michelangelo Ingrassia






Di ritorno in patria da un viaggio in Europa l'intellettuale sovietico I. E. Babel', in una conferenza tenuta a Mosca alla presenza di un gruppo di scrittori russi, osservava che "in Italia c'è un fascismo estremamente interessante. Esso è degno d'attenzione", ed aggiungeva: "L'aristocrazia italiana si è schierata contro Mussolini (...) credono che Mussolini porterà tranquillamente la nazione italiana ad una particolare forma di comunismo senza dover superare le difficoltà e subire gli scossoni come è capitato a noi". E' un traccia che suggerisce, a chi vuole addentrarsi nelle terre poco frequentate di quel fascismo immenso e rosso esplorate finora solo dal coraggioso Giano Accame, da Giuseppe Parlato e da pochi altri pionieri, due piste da seguire: i rapporti tra l'Italia fascista e la Russia comunista, e la politica sociale del fascismo. Ci addentreremo un'altra volta nei meandri del dialogo a distanza fra l'Italia di Mussolini e la Russia di Stalin, fermiamoci per adesso a visitare il campo della legislazione sociale fascista.
Inutile dire che, in proposito, la storiografia ufficiale si è concentrata esclusivamente (tranne poche lodevoli eccezioni) sulla Carta del Lavoro ignorando ingiustamente tutto il resto. Promulgata nell'aprile 1927 come base dell'ordinamento corporativo dello Stato fascista e contenente delle Dichiarazioni di principi generali in materia di organizzazione corporativa, di uffici di collocamento, e di previdenza, assistenza, educazione ed istruzione, con quella Carta il fascismo si proponeva di portare il lavoro al centro dello Stato. Gran parte degli storici, però, hanno frettolosamente processato e condannato le intenzioni del fascismo imputando al Regime di avere aspettato addirittura il 1942 per tradurre in norme legislative, nell'appena emanato Codice Civile, quei principi morali e politici fissati dalla Carta nel 1927. Questo processo sommario alle intenzioni ha scaraventato nelle foibe della storia tutta la politica sociale del fascismo ed ha oscurato quelle affinità elettive tra la Carta del Lavoro e la Costituzione che lasciano intravedere una contiguità teorica tra la cultura sociale dell'Italia fascista e la cultura sociale dell'Italia repubblicana sul terreno del lavoro: si pensi, per esempio, al "dovere sociale" del lavoro contenuto nella Dichiarazione II e al "dovere di svolgere un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società" richiamato dall'art. 4 della Costituzione; ed ancora alla enunciazione della III Dichiarazione che afferma che "l'organizzazione sindacale o professionale è libera", simile alla proposizione iniziale dell'art. 39 della Costituzione.
Ma la storia della legislazione sociale fascista non si esaurisce con la Carta del Lavoro. Essa comincia ben prima del 1927 e, in parte, prosegue oltre la fine del fascismo.
Già nel 1923 con il Regio Decreto-Legge n. 692, per esempio, si limitò ad otto ore al giorno (o 48 settimanali) la durata massima della giornata di lavoro di operai ed impiegati; del resto Mussolini nel 1921, pronunciando alla Camera il suo primo discorso da deputato, aveva detto rivolto ai socialisti: "quando voi presenterete il disegno di legge delle otto ore di lavoro, noi voteremo a favore (...) e voteremo anzi a favore di tutte le misure e dei provvedimenti che siano destinati a perfezionare la nostra legislazione sociale".
Ancora il 21 dicembre 1923 venne siglato a Palazzo Chigi, alla presenza del duce, un accordo fra i rappresentanti del sindacalismo fascista e quelli delle categorie industriali che avrebbe dovuto inaugurare una nuova fase di collaborazione sociale fra capitale e lavoro. Patto che però le categorie padronali più volte infransero tanto che, il 23 gennaio 1925, il Gran Consiglio del Fascismo denunciò con una mozione il mancato rispetto dell'accordo da parte di alcuni gruppi di datori di lavoro. In particolare vennero disattesi dagli industriali gli impegni presi circa l'aumento dei salari che, anzi, diminuirono. Scese in campo anche il sindacato fascista con una prima ondata di scioperi nell'estate del 1924 e con una seconda, durissima, nel 1925: particolarmente significativo lo sciopero dei metallurgici di Brescia condotto nel mese di marzo da Augusto Turati, uno degli uomini migliori del primo fascismo e segretario del partito dal 1926 al 1930.
Risolta la questione salariale un'altro forte contrasto si ebbe tra datori di lavoro e sindacati fascisti alla fine del 1925. Il Regime si apprestava ad istituire la Magistratura del Lavoro contro la volontà degli industriali. Questi, sostenuti dal Guardasigilli Alfredo Rocco (ex nazionalista), proponevano di sottoporre al nuovo istituto i soli ceti rurali. Ma Mussolini, pressato dal Sindacato, si oppose e gli industriali dovettero cedere.
Si arrivò così alla legge 3 aprile 1926 n. 563 sulla Disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro. Questa legge, oltre a costituire la Magistratura del lavoro, resta fondamentale su due punti: sanciva il divieto di sciopero e di serrata, estendeva a tutti i rapporti di lavoro i contratti collettivi; di questi due punti "il primo era a vantaggio degli industriali - scrive Giampiero Carocci - il secondo a vantaggio degli operai". Con il secondo punto, infatti, veniva finalmente risolto il problema dell'efficacia generale dei contratti: d'ora in poi i contratti collettivi stipulati fra le associazioni datoriali ed i sindacati avrebbero avuto efficacia generale, erga omnes; i contratti collettivi, insomma, mantenevano la veste formale dei contratti ma avevano la portata di una legge, valida per tutti, che prevaleva dunque sulle clausole difformi dei contratti individuali, a meno che questi ultimi non contenessero disposizioni più favorevoli ai lavoratori. Scrive in proposito il giurista Pietro Rescigno che il risultato pratico raggiunto dal regime fascista, vale a dire la generale efficacia dei contratti collettivi, "appariva ancora, negli anni in cui fu scritta la Carta costituzionale, un risultato di notevole valore pratico per i lavoratori"; ed infatti il principio dell'efficacia generale dei contratti collettivi sancito dall'Italia fascista venne fatto proprio dall'Italia repubblicana con la formulazione dell'art. 39 della Costituzione che all'ultimo comma prevede che i sindacati "possono ... stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce".
Alla legislazione fascista si deve anche la costituzione, nel 1933, dell'Inps (ed intanto era già stata istituita, con l'Inpgi, la previdenza per i giornalisti) e di altri organismi come l'Opera Nazionale Dopolavoro e l'Opera Nazionale Maternità ed Infanzia. Ma va ricordata anche la Legge 22 febbraio 1934 n. 370 sul riposo domenicale e settimanale, la Legge 26 aprile 1934 n. 653 sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, la Legge 23 dicembre 1937 n. 2387 sul congedo straordinario agli impiegati per contrarre matrimonio, la Legge 10 giugno 1940 n. 653 (attenzione alla data: è quella dell'entrata in guerra dell'Italia) contenente norme sulla conservazione del posto per i lavoratori chiamati alle armi, il Contratto Collettivo Nazionale per il regolamento della previdenza a favore dei viaggiatori e piazzisti dipendenti da aziende industriali siglato il 13 gennaio 1941. Nè vanno dimenticate tutte quelle norme del Codice Civile del 1942, tuttora valide, che sulla scia della Carta del Lavoro disciplinano il compenso per il lavoro notturno e straordinario, il periodo di riposo, l'indennità di anzianità, il cottimo e così via.
Non ci si deve meravigliare se parte della legislazione sociale fascista sia diventata patrimonio dell'Italia repubblicana, del resto la politica sociale ed economica del fascismo stimolò un certo interesse nel mondo antifascista, basti pensare a Pietro Nenni che nel 1933 scriveva: "Tra il capitalismo allo stato puro e il socialismo abbiamo tutta una serie di esperienze intermedie. Abbiamo il bolscevismo, di fronte al quale la nostra opposizione sul piano politico deve restare intera ... e poi abbiamo il New Deal che può sfociare tanto nel capitalismo di stato che nel fascismo, ma che applica sin da ora metodi che sono mutuati dalla mentalità del socialismo ... Tanto in Russia quanto in Germania e in Italia noi assistiamo ad esperienze di diversa portata con possibilità enormi di azione". Ed ancora nel 1966 Gino Giugni, il padre dello Statuto dei Lavoratori, nella sua prefazione alla Storia del Movimento Sindacale in Italia di Daniel Horowitz, osservava a proposito del periodo corporativo che "l'esperienza del ventennio ha avuto riflessi sensibili sul piano delle strutture istituzionali, ed ha influito non poco sulla prassi di contrattazione, anche successiva al fascismo".
C'è, insomma, una terra di mezzo sociale condivisa da fascismo ed antifascismo e che in qualche modo si è salvata dalle distruzioni della seconda guerra mondiale. Bisogna trovare il coraggio di liberarla dalle macerie delle devastazioni dei pregiudizi ideologici ora che la globalizzazione sta accendendo una nuova dialettica tra capitale e lavoro ridisegnando la geografia politica nazionale ed europea. Lo storico Giampiero Carocci ha sottolineato che "uno dei caratteri peculiari del fascismo rispetto agli altri regimi reazionari fu quello di avere una sua componente sindacalista ed una sua base di massa". Tutto questo non può restare ancora nella penombra, nè può essere rinnegato. La legislazione sociale fascista era animata dallo spirito di collaborazione fra capitale e lavoro, una collaborazione che rispondeva alla doppia esigenza di immettere le masse nello Stato e di trasformare il lavoro da oggetto a soggetto dell'economia. Erano, questi, problemi già affrontati dal pensiero politico antigiolittiano e che il fascismo cercò di risolvere fermandosi però a metà del guado. Oggi possiamo dire che il problema della democrazia politica è stato definitivamente risolto, e su questo punto l'esperienza storica del fascismo-regime è stata negativa e non ha più nulla da dire. Resta però insoluto, nel nostro tempo, il problema della democrazia economica: qui forse il fascismo-movimento, come fenomeno storico, ha ancora possibilità enormi di azioni da offrire se solo si abbattesse il muro delle pregiudiziali ideologiche. Una forma di collaborazione fra capitale e lavoro diretta al raggiungimento della democrazia economica risiede nel principio, teorizzato dal fascismo, della rappresentanza del lavoro affidata ad una delle due camere del Parlamento. E' vero che il regime non ne fece nulla, ma ciò non intacca la validità attuale di quel principio perchè di fronte alla globalizzazione la dialettica fra capitale e lavoro non può restare un fatto esclusivamente economico ma deve trovare un luogo di confronto anche politico.
Un'altro principio che potrebbe agevolare la collaborazione fra capitale e lavoro è quello della cogestione, che pure il fascismo del 1919 individuò e che il governo Giolitti del 1921 tentò inutilmente di progettare. A differenza di ciò che è accaduto in Francia ed in Germania nel secondo dopoguerra, la cogestione è rimasta estranea al nostro sistema anche se il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio, nel 1947, ne elogiava gli aspetti positivi e dinamici. Due appositi disegni di legge predisposti nel 1946 fallirono per l'opposizione degli ambienti industriali. Intanto nella Costituzione veniva posta la norma che "riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende"; è il famoso art. 46 disatteso perchè il padronato ha sempre preferito gestire direttamente le aziende. Ma l'art. 46 ha un precedente nel Decreto 12 febbraio 1944 n. 375 emanato dal governo della Repubblica Sociale Italiana, con il quale si dichiaravano socializzate le imprese di grande dimensione. Scrive Rescigno che il decreto fascista sulla cogestione rimane, "mancati gli interventi legislativi nella storia della legislazione italiana, il solo documento che abbia superato lo stadio di progetto". Ricompare, così, all'orizzonte quella terra di mezzo sociale popolata da elementi sociali fascisti e da elementi sociali antifascisti, nella quale convivono e si contaminano aspetti della legislazione sociale dell'Italia fascista ed aspetti della legislazione sociale dell'Italia repubblicana. La storia ci sprona a guardare finalmente avanti verso quell'orizzonte, lasciando ad essa le colpe gli errori e le incomprensioni del passato. Se la sfida del nostro tempo è quella di portare il lavoro al centro della globalizzazione, allora è necessario mettere in forma tutte le energie latenti e sopite della nostra storia sociale e guardare sotto una luce nuova le legislazioni sociali del passato, a cominciare da quella firmata da Mussolini, nato socialista e vissuto fascista in quella terra di mezzo sociale alla ricerca di una sintesi difficile ma non impossibile.


PUBBLICATO SU: STORIA DEL NOVECENTO, N. 28, MAGGIO 2003

mercoledì 10 dicembre 2008

Il sangue e la celtica

Il sangue e la celtica

Gli stragisti, gli infiltrati e gli incastrati. Le vittime e i carnefici, i picchiatori e i picchiati. I leader e i gregari. Tutti i "fratelli d'armi" della galassia neofascista. Nella storia più nera d'Italia.
2008pp. 504€ 18,00

"Vendicare piazzale Loreto": la storia del neofascismo armato comincia così, con la missione (fallita) per uccidere l'assassino del Duce. Dall'immediato dopoguerra fino agli anni Settanta si affacceranno nuove generazioni di estremisti, si assisterà a scissioni, deviazioni, processi e regolamenti di conti. A destra non c'è una rivoluzione da preparare, ma presto, per centinaia di militanti, la violenza diventerà l'unica via praticabile. Violenza d'attacco per costruire un nuovo ordine attraverso il caos (e forse qualcosa di più tragico), e di difesa, per garantirsi il diritto a esistere. Nicola Rao ha ricostruito misteri e retroscena del terrorismo nero, consultando migliaia di carte processuali, articoli dell'epoca e libri. Ma soprattutto ha ascoltato decine di testimoni e protagonisti, raccogliendo rivelazioni inedite, spesso clamorose, sulle stragi e sui tentati golpe. È un viaggio nel profondo della galassia nera che nessuno aveva tentato prima. Parafrasando le parole del fotografo Robert Capa: non esistono storie belle o brutte, ci sono soltanto storie raccontate da più o meno vicino.

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