giovedì 18 dicembre 2008

LA LEGISLAZIONE SOCIALE DEL FASCISMO






di Michelangelo Ingrassia






Di ritorno in patria da un viaggio in Europa l'intellettuale sovietico I. E. Babel', in una conferenza tenuta a Mosca alla presenza di un gruppo di scrittori russi, osservava che "in Italia c'è un fascismo estremamente interessante. Esso è degno d'attenzione", ed aggiungeva: "L'aristocrazia italiana si è schierata contro Mussolini (...) credono che Mussolini porterà tranquillamente la nazione italiana ad una particolare forma di comunismo senza dover superare le difficoltà e subire gli scossoni come è capitato a noi". E' un traccia che suggerisce, a chi vuole addentrarsi nelle terre poco frequentate di quel fascismo immenso e rosso esplorate finora solo dal coraggioso Giano Accame, da Giuseppe Parlato e da pochi altri pionieri, due piste da seguire: i rapporti tra l'Italia fascista e la Russia comunista, e la politica sociale del fascismo. Ci addentreremo un'altra volta nei meandri del dialogo a distanza fra l'Italia di Mussolini e la Russia di Stalin, fermiamoci per adesso a visitare il campo della legislazione sociale fascista.
Inutile dire che, in proposito, la storiografia ufficiale si è concentrata esclusivamente (tranne poche lodevoli eccezioni) sulla Carta del Lavoro ignorando ingiustamente tutto il resto. Promulgata nell'aprile 1927 come base dell'ordinamento corporativo dello Stato fascista e contenente delle Dichiarazioni di principi generali in materia di organizzazione corporativa, di uffici di collocamento, e di previdenza, assistenza, educazione ed istruzione, con quella Carta il fascismo si proponeva di portare il lavoro al centro dello Stato. Gran parte degli storici, però, hanno frettolosamente processato e condannato le intenzioni del fascismo imputando al Regime di avere aspettato addirittura il 1942 per tradurre in norme legislative, nell'appena emanato Codice Civile, quei principi morali e politici fissati dalla Carta nel 1927. Questo processo sommario alle intenzioni ha scaraventato nelle foibe della storia tutta la politica sociale del fascismo ed ha oscurato quelle affinità elettive tra la Carta del Lavoro e la Costituzione che lasciano intravedere una contiguità teorica tra la cultura sociale dell'Italia fascista e la cultura sociale dell'Italia repubblicana sul terreno del lavoro: si pensi, per esempio, al "dovere sociale" del lavoro contenuto nella Dichiarazione II e al "dovere di svolgere un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società" richiamato dall'art. 4 della Costituzione; ed ancora alla enunciazione della III Dichiarazione che afferma che "l'organizzazione sindacale o professionale è libera", simile alla proposizione iniziale dell'art. 39 della Costituzione.
Ma la storia della legislazione sociale fascista non si esaurisce con la Carta del Lavoro. Essa comincia ben prima del 1927 e, in parte, prosegue oltre la fine del fascismo.
Già nel 1923 con il Regio Decreto-Legge n. 692, per esempio, si limitò ad otto ore al giorno (o 48 settimanali) la durata massima della giornata di lavoro di operai ed impiegati; del resto Mussolini nel 1921, pronunciando alla Camera il suo primo discorso da deputato, aveva detto rivolto ai socialisti: "quando voi presenterete il disegno di legge delle otto ore di lavoro, noi voteremo a favore (...) e voteremo anzi a favore di tutte le misure e dei provvedimenti che siano destinati a perfezionare la nostra legislazione sociale".
Ancora il 21 dicembre 1923 venne siglato a Palazzo Chigi, alla presenza del duce, un accordo fra i rappresentanti del sindacalismo fascista e quelli delle categorie industriali che avrebbe dovuto inaugurare una nuova fase di collaborazione sociale fra capitale e lavoro. Patto che però le categorie padronali più volte infransero tanto che, il 23 gennaio 1925, il Gran Consiglio del Fascismo denunciò con una mozione il mancato rispetto dell'accordo da parte di alcuni gruppi di datori di lavoro. In particolare vennero disattesi dagli industriali gli impegni presi circa l'aumento dei salari che, anzi, diminuirono. Scese in campo anche il sindacato fascista con una prima ondata di scioperi nell'estate del 1924 e con una seconda, durissima, nel 1925: particolarmente significativo lo sciopero dei metallurgici di Brescia condotto nel mese di marzo da Augusto Turati, uno degli uomini migliori del primo fascismo e segretario del partito dal 1926 al 1930.
Risolta la questione salariale un'altro forte contrasto si ebbe tra datori di lavoro e sindacati fascisti alla fine del 1925. Il Regime si apprestava ad istituire la Magistratura del Lavoro contro la volontà degli industriali. Questi, sostenuti dal Guardasigilli Alfredo Rocco (ex nazionalista), proponevano di sottoporre al nuovo istituto i soli ceti rurali. Ma Mussolini, pressato dal Sindacato, si oppose e gli industriali dovettero cedere.
Si arrivò così alla legge 3 aprile 1926 n. 563 sulla Disciplina giuridica dei rapporti collettivi del lavoro. Questa legge, oltre a costituire la Magistratura del lavoro, resta fondamentale su due punti: sanciva il divieto di sciopero e di serrata, estendeva a tutti i rapporti di lavoro i contratti collettivi; di questi due punti "il primo era a vantaggio degli industriali - scrive Giampiero Carocci - il secondo a vantaggio degli operai". Con il secondo punto, infatti, veniva finalmente risolto il problema dell'efficacia generale dei contratti: d'ora in poi i contratti collettivi stipulati fra le associazioni datoriali ed i sindacati avrebbero avuto efficacia generale, erga omnes; i contratti collettivi, insomma, mantenevano la veste formale dei contratti ma avevano la portata di una legge, valida per tutti, che prevaleva dunque sulle clausole difformi dei contratti individuali, a meno che questi ultimi non contenessero disposizioni più favorevoli ai lavoratori. Scrive in proposito il giurista Pietro Rescigno che il risultato pratico raggiunto dal regime fascista, vale a dire la generale efficacia dei contratti collettivi, "appariva ancora, negli anni in cui fu scritta la Carta costituzionale, un risultato di notevole valore pratico per i lavoratori"; ed infatti il principio dell'efficacia generale dei contratti collettivi sancito dall'Italia fascista venne fatto proprio dall'Italia repubblicana con la formulazione dell'art. 39 della Costituzione che all'ultimo comma prevede che i sindacati "possono ... stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce".
Alla legislazione fascista si deve anche la costituzione, nel 1933, dell'Inps (ed intanto era già stata istituita, con l'Inpgi, la previdenza per i giornalisti) e di altri organismi come l'Opera Nazionale Dopolavoro e l'Opera Nazionale Maternità ed Infanzia. Ma va ricordata anche la Legge 22 febbraio 1934 n. 370 sul riposo domenicale e settimanale, la Legge 26 aprile 1934 n. 653 sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, la Legge 23 dicembre 1937 n. 2387 sul congedo straordinario agli impiegati per contrarre matrimonio, la Legge 10 giugno 1940 n. 653 (attenzione alla data: è quella dell'entrata in guerra dell'Italia) contenente norme sulla conservazione del posto per i lavoratori chiamati alle armi, il Contratto Collettivo Nazionale per il regolamento della previdenza a favore dei viaggiatori e piazzisti dipendenti da aziende industriali siglato il 13 gennaio 1941. Nè vanno dimenticate tutte quelle norme del Codice Civile del 1942, tuttora valide, che sulla scia della Carta del Lavoro disciplinano il compenso per il lavoro notturno e straordinario, il periodo di riposo, l'indennità di anzianità, il cottimo e così via.
Non ci si deve meravigliare se parte della legislazione sociale fascista sia diventata patrimonio dell'Italia repubblicana, del resto la politica sociale ed economica del fascismo stimolò un certo interesse nel mondo antifascista, basti pensare a Pietro Nenni che nel 1933 scriveva: "Tra il capitalismo allo stato puro e il socialismo abbiamo tutta una serie di esperienze intermedie. Abbiamo il bolscevismo, di fronte al quale la nostra opposizione sul piano politico deve restare intera ... e poi abbiamo il New Deal che può sfociare tanto nel capitalismo di stato che nel fascismo, ma che applica sin da ora metodi che sono mutuati dalla mentalità del socialismo ... Tanto in Russia quanto in Germania e in Italia noi assistiamo ad esperienze di diversa portata con possibilità enormi di azione". Ed ancora nel 1966 Gino Giugni, il padre dello Statuto dei Lavoratori, nella sua prefazione alla Storia del Movimento Sindacale in Italia di Daniel Horowitz, osservava a proposito del periodo corporativo che "l'esperienza del ventennio ha avuto riflessi sensibili sul piano delle strutture istituzionali, ed ha influito non poco sulla prassi di contrattazione, anche successiva al fascismo".
C'è, insomma, una terra di mezzo sociale condivisa da fascismo ed antifascismo e che in qualche modo si è salvata dalle distruzioni della seconda guerra mondiale. Bisogna trovare il coraggio di liberarla dalle macerie delle devastazioni dei pregiudizi ideologici ora che la globalizzazione sta accendendo una nuova dialettica tra capitale e lavoro ridisegnando la geografia politica nazionale ed europea. Lo storico Giampiero Carocci ha sottolineato che "uno dei caratteri peculiari del fascismo rispetto agli altri regimi reazionari fu quello di avere una sua componente sindacalista ed una sua base di massa". Tutto questo non può restare ancora nella penombra, nè può essere rinnegato. La legislazione sociale fascista era animata dallo spirito di collaborazione fra capitale e lavoro, una collaborazione che rispondeva alla doppia esigenza di immettere le masse nello Stato e di trasformare il lavoro da oggetto a soggetto dell'economia. Erano, questi, problemi già affrontati dal pensiero politico antigiolittiano e che il fascismo cercò di risolvere fermandosi però a metà del guado. Oggi possiamo dire che il problema della democrazia politica è stato definitivamente risolto, e su questo punto l'esperienza storica del fascismo-regime è stata negativa e non ha più nulla da dire. Resta però insoluto, nel nostro tempo, il problema della democrazia economica: qui forse il fascismo-movimento, come fenomeno storico, ha ancora possibilità enormi di azioni da offrire se solo si abbattesse il muro delle pregiudiziali ideologiche. Una forma di collaborazione fra capitale e lavoro diretta al raggiungimento della democrazia economica risiede nel principio, teorizzato dal fascismo, della rappresentanza del lavoro affidata ad una delle due camere del Parlamento. E' vero che il regime non ne fece nulla, ma ciò non intacca la validità attuale di quel principio perchè di fronte alla globalizzazione la dialettica fra capitale e lavoro non può restare un fatto esclusivamente economico ma deve trovare un luogo di confronto anche politico.
Un'altro principio che potrebbe agevolare la collaborazione fra capitale e lavoro è quello della cogestione, che pure il fascismo del 1919 individuò e che il governo Giolitti del 1921 tentò inutilmente di progettare. A differenza di ciò che è accaduto in Francia ed in Germania nel secondo dopoguerra, la cogestione è rimasta estranea al nostro sistema anche se il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio, nel 1947, ne elogiava gli aspetti positivi e dinamici. Due appositi disegni di legge predisposti nel 1946 fallirono per l'opposizione degli ambienti industriali. Intanto nella Costituzione veniva posta la norma che "riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende"; è il famoso art. 46 disatteso perchè il padronato ha sempre preferito gestire direttamente le aziende. Ma l'art. 46 ha un precedente nel Decreto 12 febbraio 1944 n. 375 emanato dal governo della Repubblica Sociale Italiana, con il quale si dichiaravano socializzate le imprese di grande dimensione. Scrive Rescigno che il decreto fascista sulla cogestione rimane, "mancati gli interventi legislativi nella storia della legislazione italiana, il solo documento che abbia superato lo stadio di progetto". Ricompare, così, all'orizzonte quella terra di mezzo sociale popolata da elementi sociali fascisti e da elementi sociali antifascisti, nella quale convivono e si contaminano aspetti della legislazione sociale dell'Italia fascista ed aspetti della legislazione sociale dell'Italia repubblicana. La storia ci sprona a guardare finalmente avanti verso quell'orizzonte, lasciando ad essa le colpe gli errori e le incomprensioni del passato. Se la sfida del nostro tempo è quella di portare il lavoro al centro della globalizzazione, allora è necessario mettere in forma tutte le energie latenti e sopite della nostra storia sociale e guardare sotto una luce nuova le legislazioni sociali del passato, a cominciare da quella firmata da Mussolini, nato socialista e vissuto fascista in quella terra di mezzo sociale alla ricerca di una sintesi difficile ma non impossibile.


PUBBLICATO SU: STORIA DEL NOVECENTO, N. 28, MAGGIO 2003

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