di Luigi G. de Anna per il Secolo d'Italia
Qualche sera fa, alla trasmissione Porta a porta, è stata riportata la notizia di un progettato attentato alla vita di Barack Obama da parte di due neonazisti statunitensi. Trattandosi di un flash dell’ultima ora Bruno Vespa è dovuto ricorrere a immagini di repertorio, e tra queste sono stati mostrati dei tatuaggi raffiguranti croci celtiche, certamente non appartenenti ai due supposti attentatori, visto che di loro non si sapeva ancora nulla. La scelta della croce celtica come simbolo del più bieco e pericoloso neonazismo mi ha colpito e, lo confesso, infastidito molto. Io, d’altronde, per alcuni anni ho portato al collo la croce celtica. All’epoca non volevo certo imitare il sindaco Alemanno, visto che l’avevo acquistata a Hälsingborg nel lontano 1967 in occasione del mio primo viaggio in Svezia. Non la porto più, ma per il semplice fatto che l’ho perduta da tempo, lo dico a scanso di, improbabili, interviste televisive. A quella croce ero affezionato. E non solo in conseguenza di quel tipo di legame, quasi di fedeltà totemica, che a volte ci lega agli oggetti, ma perché aveva rappresentato, come simbolo, una parte importante della mia gioventù e del mio immaginario generazionale, legati per buona parte alla militanza in Giovane Europa, l’organizzazione giovanile fondata dal belga Jean Thiriart, introdotta in Italia nel 1963. Ad essa, qualche anno più tardi, tra i tanti, aderì a Firenze un gruppo di giovani, provenienti dal Msi. Quel partito oramai ci stava stretto, eravamo una generazione che cominciava a guardare a più ampie prospettive, quelle europee, e a più ampie intese politiche, che andavano, sempre in politica estera, ma poi il discorso si allargò a quella interna, al di là dei vecchi schieramenti da guerra fredda.
Non intendo ora ripercorrere la storia di questo movimento, su cui non molto è stato scritto, ma sul quale presto dovrebbe uscire una monografia ben documentata curata da Giovanni Tarantino, un giovane studioso e giornalista palermitano. Volevo solo ricor dare come e perché introducemmo la croce celtica in Italia. È infatti generalmente accettato che questo simbolo sia stato introdotto nella semantica politica proprio da Giovane Europa. Lo scopo era semplice e per noi militanti evidente: allontanarsi dalla lugubre e bellicosa simbologia neofascista e neonazista. Giovane Europa infatti, pur nascendo dalla costola di un movimento della destra radicale, Giovane Nazione, si proponeva come sintesi di nuove prospettive politiche in un’Europa che avvertiva l’indebolimento delle logiche della guerra fredda, permettendo nuove intese e nuove alleanze, che, in nome di una Europa nazione, avrebbero potuto far uscire la destra, e, si sperava, anche la sinistra, dalla logica dei blocchi contrapposti e della reciproca demonizzazione. Ma per fare questo, era necessario liberarsi di una eredità neofascista che nel Msi era ancora viva e operante, come da quella neonazista, eredità che avevano contraddistinto in Europa altri movimenti nati dalle costole di esperienze politico-ideologiche che affondavano le proprie radici negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale. L’abbandono – e il superamento – dei toni radicali di estrema destra doveva quindi passare anche per l’adozione di un simbolo che fosse nuovo nel vasto repertorio dell’iconografia politica della destra, già ricca di croci di vario tipo e di versioni più o meno fantasiose di “signa” che rimandavano a eredità iperboree, indoeuropee o simili. La croce celtica, a dire il vero, esisteva già da secoli se non da millenni; simbolo tradizionale che riproduceva l’eterno ritorno del sole, era stato ereditato dal cristianesimo irlandese che decorerà chiese e cimiteri con la croce iscritta nel cerchio.
Come ha fatto giustamente notare Gianni Alemanno nella sua difesa della propria croce celtica, il rimando al cristianesimo, prima ancora che al paganesimo dal quale essa indubbiamente proveniva, era evidente e per noi direi davvero condizionante. Voglio dire di “noi” giovani europei fiorentini, cresciuti culturalmente in quel cenacolo di giovani e meno giovani che si riuniva intorno ad Attilio Mordini, morto prematuramente nel 1966. Mordini, che aveva combattuto durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale, era uno dei maggiori esponenti del cattolicesimo tradizionalista italiano. E il nostro gruppo di amici, mi permetto di citare Franco Cardini, Marco Barsacchi, Amerino Griffini, Francesco Ruocco, Guglielmo Fran cois, Alfio Krancic, Franco Petrone, Luca Bressan, cui si aggiungeranno più tardi altri provenienti dall’esperienza di Ordine Nuovo, come Massimo Marletta, era dunque cresciuto a diretto contatto con Mordini (foto a destra) o comunque ne aveva subito la lezione intellettuale. Ecco come il cattolicesimo era rimasto condizionante, almeno nel nostro gruppo fiorentino (in altre parti d’Italia Giovane Europa seguì differenti itinerari di filiazione politico-culturale), ed ecco come la croce celtica diventò per noi il simbolo perfetto del nuovo europeismo. Come mi ha recentemente ricordato Amerino Griffini, in occasione del primo incontro a Firenze tra Mordini e Jean Thiriart, il fiorentino chiese al belga il perché della scelta di quel simbolo per il nuovo movimento transnazionale. E Thiriart, e non era una semplice boutade, disse che era facile da tracciare sui muri. Mordini replicò che in fin dei conti non era importante essere coscienti dell’uso dei simboli... In effetti questa commistione tra due diverse tradizioni appare chiara, come mi ha ricordato Claudio Mutti, da una didascalia di una foto apparsa sul numero unico di Europa Combattente del giugno 1963, dove si legge che la croce celtica era stata eretta da monaci irlandesi in Germania nell’850 e che era un antico simbolo solare «comune a tutti i popoli europei che significa il rinnovellarsi della vita, per questa ragione è stata adottata come insegna dei gruppi che si battono per il rinnovamento europeo, diventando così la croce d’Europa».
Da una parte ci si richiamava dunque a una tradizione simbolica che comunque restava la matrice di un pensiero autenticamente di destra, penso all’importante magistero di Adriano Romualdi (nella foto a sinistra), e non a caso molti di noi avevano aderito alla corrente romualdiana del Msi, e dall’altra ne indicava la confluenza nel filone del cattolicesimo tradizionalista. È comunque vero che la croce celtica ci colpì per la sua novità nel mondo appunto alquanto ripetitivo del simbolismo di estrema destra. Come molti sanno, storicamente fu Franl’Oas (l’organizzazione dell’armata segreta dei pieds noirs, poi passata in Francia) a far diffondere il nuovo simbolo. Non conosco i motivi, certamente un po’ casuali come succede in questi casi, della scelta da parte dei pieds noirs, ma non dovettero essere lontani dai nostri, infatti, sembrerà banale dirlo, la croce celtica si diffuse per la semplicità con cui poteva essere tracciata sui muri. Mi permetto un ricordo personale, e spero che il “reato” sia caduto in prescrizione. Agli albori della Giovane Europa fiorentina facevamo ciò che era ovvio fare nel campo della propaganda politica, che comprendeva, allora come ora, la scritta murale. In qualche modo precorremmo i writers. Inventavamo slogan e poi andavamo a dipingerli sui muri delle scuole. Una notte decidemmo, con Franco Cardini, mi perdoni se lo coinvolgo, di andare a scrivere sul muro del liceo Michelangelo, notoriamente di sinistra, la scritta: «Senza Mosca e senza Washington». Un po’ lunghetto, ma con un po’di celerità ce la saremmo cavata prima di essere visti. Scendemmo dalla macchina e cominciammo. Fino a Mosca andò tutto liscio. I problemi cominciarono col nome della capitale statunitense. Come diavolo si scriveva? Iniziò una vivace discussione, che venne interrotta dall’arrivo di un metronotte. Quella scritta, rimasta incompiuta, sarà un segno enigmatico del pre-sessantotto.
Quando però introducemmo la croce celtica, i nostri problemi di spelling erano finalmente risolti, bastava quel cerchio e quella croce per qualificarci. La firma, il logo del nuovo movimento, diventò nota non solo a Firenze. Ma torniamo ai primordi della croce celtica, che compare quindi nella storia della lotta politica in Algeria. Secondo l’Histoire de l’organisation de l’armée secrète di Morland, Barangé, Martinez (Julliard, Paris 1964) la croce celtica ha infatti la sua culla ad Algeri. Il 9 febbraio, in occasione della visita del primo ministro Michel Debré, ci fu una manifestazione di protesta, organizzata dal Parti Nationaliste e da altri gruppi algerini di destra. I dimostranti innalzavano come simbolo la croce celtica. Franco Cardini mi fa notare come questa croce celtica possa essere in diretta connessione con la “francisca” stilizzata del Ppf di Jacques Doriot. La celtica dunque diventerà parte integrante della simbologia nelle manifestazioni in Algeria. Passerà poi anche al movimento di resistenza armata. Nell’Oas, o vicino ad essa, militavano elementi che provenivano dal movimento Jeune Nation, dissolto in Algeria il 15 maggio del 1958 e ricostituito il 6 febbraio successivo sotto il nome di Parti Nationaliste. Questo in Italia assumerà il nome di Giovane Nazione, ereditandone il simbolo e da essa nascerà Giovane Europa. È però vero, come mi fa notare Amerino Griffini, fondamentale fonte di documentazione sui movimenti radicali a partire dagli anni Sessanta, che prima che da Giovane Nazione, la celtica era stata adottata in Italia dalle Fng (Formazioni Nazionali Giovanili), anche l’uso non aveva ancora conosciuto una diffusione di massa. Una cosa è però certa: nulla di più lontano dalla celtica di allora era il rimando a un anche solo velato antisemitismo. Certo, mi ha ricordato Franco Cardini, non si può negare un legame sentimentale con fascismo letterario francese, ma si tratta di quello cui aderì Pierre Drieu la Rochelle, molto vicino all’estrema sinistra. Del resto, continua Cardini nella lettera che mi ha scritto qualche giorno fa, «i colori della croce celtica di Giovane Europa erano quelli che dall’Ottocento sono i colori della rivoluzione e della libertà: il rosso e il nero. Questo per noialtri vecchi nazionaleuropeisti. Gli abusi dei teppisti degli stadi non sono storia nostra e non ci riguardano».
Cardini ha profondamente ragione. Il deteriorare dei simboli, non in quanto tali, ma come espressione di una ideologia, è purtroppo un fatto contemporaneo. Deterioramento aiutato dall’ignoranza che regna in materia. In un articolo del 1992, apparso sul Corriere della Sera, intitolato «Nazifascisti in piazza Venezia», la croce celtica tocca il fondo della sua parabola. L’articolista descrive il corteo dei naziskin che portano «un bracciale con la runa celtica (la svastica dei neonazisti)». Triste fine della “nostra” croce generazionale, degradata a una inesistente “runa” celtica portata da fanatici naziskin. Habent sua fata signa.
Non intendo ora ripercorrere la storia di questo movimento, su cui non molto è stato scritto, ma sul quale presto dovrebbe uscire una monografia ben documentata curata da Giovanni Tarantino, un giovane studioso e giornalista palermitano. Volevo solo ricor dare come e perché introducemmo la croce celtica in Italia. È infatti generalmente accettato che questo simbolo sia stato introdotto nella semantica politica proprio da Giovane Europa. Lo scopo era semplice e per noi militanti evidente: allontanarsi dalla lugubre e bellicosa simbologia neofascista e neonazista. Giovane Europa infatti, pur nascendo dalla costola di un movimento della destra radicale, Giovane Nazione, si proponeva come sintesi di nuove prospettive politiche in un’Europa che avvertiva l’indebolimento delle logiche della guerra fredda, permettendo nuove intese e nuove alleanze, che, in nome di una Europa nazione, avrebbero potuto far uscire la destra, e, si sperava, anche la sinistra, dalla logica dei blocchi contrapposti e della reciproca demonizzazione. Ma per fare questo, era necessario liberarsi di una eredità neofascista che nel Msi era ancora viva e operante, come da quella neonazista, eredità che avevano contraddistinto in Europa altri movimenti nati dalle costole di esperienze politico-ideologiche che affondavano le proprie radici negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale. L’abbandono – e il superamento – dei toni radicali di estrema destra doveva quindi passare anche per l’adozione di un simbolo che fosse nuovo nel vasto repertorio dell’iconografia politica della destra, già ricca di croci di vario tipo e di versioni più o meno fantasiose di “signa” che rimandavano a eredità iperboree, indoeuropee o simili. La croce celtica, a dire il vero, esisteva già da secoli se non da millenni; simbolo tradizionale che riproduceva l’eterno ritorno del sole, era stato ereditato dal cristianesimo irlandese che decorerà chiese e cimiteri con la croce iscritta nel cerchio.
Come ha fatto giustamente notare Gianni Alemanno nella sua difesa della propria croce celtica, il rimando al cristianesimo, prima ancora che al paganesimo dal quale essa indubbiamente proveniva, era evidente e per noi direi davvero condizionante. Voglio dire di “noi” giovani europei fiorentini, cresciuti culturalmente in quel cenacolo di giovani e meno giovani che si riuniva intorno ad Attilio Mordini, morto prematuramente nel 1966. Mordini, che aveva combattuto durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale, era uno dei maggiori esponenti del cattolicesimo tradizionalista italiano. E il nostro gruppo di amici, mi permetto di citare Franco Cardini, Marco Barsacchi, Amerino Griffini, Francesco Ruocco, Guglielmo Fran cois, Alfio Krancic, Franco Petrone, Luca Bressan, cui si aggiungeranno più tardi altri provenienti dall’esperienza di Ordine Nuovo, come Massimo Marletta, era dunque cresciuto a diretto contatto con Mordini (foto a destra) o comunque ne aveva subito la lezione intellettuale. Ecco come il cattolicesimo era rimasto condizionante, almeno nel nostro gruppo fiorentino (in altre parti d’Italia Giovane Europa seguì differenti itinerari di filiazione politico-culturale), ed ecco come la croce celtica diventò per noi il simbolo perfetto del nuovo europeismo. Come mi ha recentemente ricordato Amerino Griffini, in occasione del primo incontro a Firenze tra Mordini e Jean Thiriart, il fiorentino chiese al belga il perché della scelta di quel simbolo per il nuovo movimento transnazionale. E Thiriart, e non era una semplice boutade, disse che era facile da tracciare sui muri. Mordini replicò che in fin dei conti non era importante essere coscienti dell’uso dei simboli... In effetti questa commistione tra due diverse tradizioni appare chiara, come mi ha ricordato Claudio Mutti, da una didascalia di una foto apparsa sul numero unico di Europa Combattente del giugno 1963, dove si legge che la croce celtica era stata eretta da monaci irlandesi in Germania nell’850 e che era un antico simbolo solare «comune a tutti i popoli europei che significa il rinnovellarsi della vita, per questa ragione è stata adottata come insegna dei gruppi che si battono per il rinnovamento europeo, diventando così la croce d’Europa».
Da una parte ci si richiamava dunque a una tradizione simbolica che comunque restava la matrice di un pensiero autenticamente di destra, penso all’importante magistero di Adriano Romualdi (nella foto a sinistra), e non a caso molti di noi avevano aderito alla corrente romualdiana del Msi, e dall’altra ne indicava la confluenza nel filone del cattolicesimo tradizionalista. È comunque vero che la croce celtica ci colpì per la sua novità nel mondo appunto alquanto ripetitivo del simbolismo di estrema destra. Come molti sanno, storicamente fu Franl’Oas (l’organizzazione dell’armata segreta dei pieds noirs, poi passata in Francia) a far diffondere il nuovo simbolo. Non conosco i motivi, certamente un po’ casuali come succede in questi casi, della scelta da parte dei pieds noirs, ma non dovettero essere lontani dai nostri, infatti, sembrerà banale dirlo, la croce celtica si diffuse per la semplicità con cui poteva essere tracciata sui muri. Mi permetto un ricordo personale, e spero che il “reato” sia caduto in prescrizione. Agli albori della Giovane Europa fiorentina facevamo ciò che era ovvio fare nel campo della propaganda politica, che comprendeva, allora come ora, la scritta murale. In qualche modo precorremmo i writers. Inventavamo slogan e poi andavamo a dipingerli sui muri delle scuole. Una notte decidemmo, con Franco Cardini, mi perdoni se lo coinvolgo, di andare a scrivere sul muro del liceo Michelangelo, notoriamente di sinistra, la scritta: «Senza Mosca e senza Washington». Un po’ lunghetto, ma con un po’di celerità ce la saremmo cavata prima di essere visti. Scendemmo dalla macchina e cominciammo. Fino a Mosca andò tutto liscio. I problemi cominciarono col nome della capitale statunitense. Come diavolo si scriveva? Iniziò una vivace discussione, che venne interrotta dall’arrivo di un metronotte. Quella scritta, rimasta incompiuta, sarà un segno enigmatico del pre-sessantotto.
Quando però introducemmo la croce celtica, i nostri problemi di spelling erano finalmente risolti, bastava quel cerchio e quella croce per qualificarci. La firma, il logo del nuovo movimento, diventò nota non solo a Firenze. Ma torniamo ai primordi della croce celtica, che compare quindi nella storia della lotta politica in Algeria. Secondo l’Histoire de l’organisation de l’armée secrète di Morland, Barangé, Martinez (Julliard, Paris 1964) la croce celtica ha infatti la sua culla ad Algeri. Il 9 febbraio, in occasione della visita del primo ministro Michel Debré, ci fu una manifestazione di protesta, organizzata dal Parti Nationaliste e da altri gruppi algerini di destra. I dimostranti innalzavano come simbolo la croce celtica. Franco Cardini mi fa notare come questa croce celtica possa essere in diretta connessione con la “francisca” stilizzata del Ppf di Jacques Doriot. La celtica dunque diventerà parte integrante della simbologia nelle manifestazioni in Algeria. Passerà poi anche al movimento di resistenza armata. Nell’Oas, o vicino ad essa, militavano elementi che provenivano dal movimento Jeune Nation, dissolto in Algeria il 15 maggio del 1958 e ricostituito il 6 febbraio successivo sotto il nome di Parti Nationaliste. Questo in Italia assumerà il nome di Giovane Nazione, ereditandone il simbolo e da essa nascerà Giovane Europa. È però vero, come mi fa notare Amerino Griffini, fondamentale fonte di documentazione sui movimenti radicali a partire dagli anni Sessanta, che prima che da Giovane Nazione, la celtica era stata adottata in Italia dalle Fng (Formazioni Nazionali Giovanili), anche l’uso non aveva ancora conosciuto una diffusione di massa. Una cosa è però certa: nulla di più lontano dalla celtica di allora era il rimando a un anche solo velato antisemitismo. Certo, mi ha ricordato Franco Cardini, non si può negare un legame sentimentale con fascismo letterario francese, ma si tratta di quello cui aderì Pierre Drieu la Rochelle, molto vicino all’estrema sinistra. Del resto, continua Cardini nella lettera che mi ha scritto qualche giorno fa, «i colori della croce celtica di Giovane Europa erano quelli che dall’Ottocento sono i colori della rivoluzione e della libertà: il rosso e il nero. Questo per noialtri vecchi nazionaleuropeisti. Gli abusi dei teppisti degli stadi non sono storia nostra e non ci riguardano».
Cardini ha profondamente ragione. Il deteriorare dei simboli, non in quanto tali, ma come espressione di una ideologia, è purtroppo un fatto contemporaneo. Deterioramento aiutato dall’ignoranza che regna in materia. In un articolo del 1992, apparso sul Corriere della Sera, intitolato «Nazifascisti in piazza Venezia», la croce celtica tocca il fondo della sua parabola. L’articolista descrive il corteo dei naziskin che portano «un bracciale con la runa celtica (la svastica dei neonazisti)». Triste fine della “nostra” croce generazionale, degradata a una inesistente “runa” celtica portata da fanatici naziskin. Habent sua fata signa.
Luigi G. de Anna (3.8.1946), giornalista e scrittore, si è laureato in Lettere nel 1973 (Università di Firenze). Nel 1988 ha presentato la sua tesi di dottorato: "Conoscenza e immagine della Finlandia e del Settentrione nella cultura classico-medievale". Dal 1997 è professore di Lingua e cultura italiane presso l'Università di Turku, in Finlandia. Gran parte del suo lavoro di ricerca è incentrato sulle relazioni culturali tra Italia e Finlandia. A Turku, De Anna è stato fra i fondatori della Società di Lingua e cultura italiane che pubblica la rivista 'Settentrione'.
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