Formidabile e terribile fu santa Teresa d’Avila. Mistica – scrittrice feconda, preda di frequenti deliri estatici – la santa, “inconfutabilmente isterica”, fu un antifemminuccia e perciò donna tenace e rude. Fu potente e austera ma sempre in balia d’irrefrenabili esaltazioni. Fondatrice dell’ordine delle carmelitane scalze i cui conventi ancora oggi ¬– nella Spagna dei desideri e dei genitori A e B – narrano l’età profonda della Controriforma, Teresa fu donna che fece della sua vita terrena un inno al Dio della fede universale cattolica.Un sorprendente racconto di lei, specie in tempi in cui la religione gode di cattiva comunicazione, ce lo porge Julia Kristeva in “Teresa, mon amour”. Nel sottotitolo si legge: “Santa Teresa d’Avila, l’estasi come un romanzo”, è un corposo volume tradotto da Alessia Piovanello ed edito in Italia da Donzelli (euro 35,00). Santità e misticismo sono interpretati in chiave psicanalitica dalla scrittrice, in modalità in vero non sempre convincenti, quasi la mistica Teresa recalcitrasse ad essere imbrigliata in categorie che non le appartengono. Le tante citazioni riportate nell’opera, tratte dagli scritti della santa, bastano a spazzar via le troppe sovrastrutture interpretative con le quali la Kristeva che premette di non essere credente, prova spiegare il cammino verso la santità di Teresa, che entrerà in convitto nel piccolo collegio agostiniano di Santa Maria de Gracia, ad Avila, a sedici anni. In età più che matura per l’epoca e per una creatura chiamata alla santità.Teresa de Ahumada de Cepeda, era nata il 28 marzo 1515 ad Avila, in Spagna. La cattolicissima Spagna nel 1500 manda agli antipodi la propria flotta per arricchire le casse dello Stato, ma teme le conseguenze dello scisma luterano che sta insanguinando l’Europa nello scontro fratricida tra cattolici e protestanti che incrinerà per sempre il segno medievale della cristianità universale. Teresa è la terzogenita di don Alonso Sanchez de Cepeda e dona Beatriz de Ahumada. La bambina porta il nome della nonna materna e della bisnonna paterna. Il nonno paterno, Juan Sanchez vive a Toledo ed è un “marrano”, un ebreo costretto a convertirsi al cattolicesimo, obbligato a indossare lo scapolare giallo che indicava i convertiti che in segreto continuavano a professare la loro antica religione. In realtà il ricco mercante è creditore di quegli stessi suoi concittadini che lo scherniscono, e l’umiliazione da lui patita, sembra più che altro formale, se per molto meno l’Inquisizione soleva comminare pene ben più terribili. Il padre di Teresa ha
già alle spalle un primo matrimonio e due figli. Rimasto vedovo, sposa l’elegante e delicata Beatriz, donna colta e discreta che amava leggere con la bambina Teresa romanzi cortesi e storie di santi. Beatriz partorirà dieci figli e, sfinita dalle gravidanze, morirà a trentatrè anni. Teresa ha tredici anni e deve imparare ad occuparsi della numerosa famiglia. La fortuna accumulata dal nonno, è stata dilapidata dal padre: vivere da hidalgo è molto più dispendioso che vendere sete. Tutta la vita Teresa avrà in mente due cose: la honra paterna, l’onore, a cui tutto bisogna sacrificare pur di mantenerlo intatto e la triste fine di dona Beatriz: nulla dura per sempre, neanche l’amore terreno. L’hidalgo è il nobile che serve il re ed ha il privilegio di non pagare le tasse. I de Cepeda finiscono in tribunale per provare il loro status di hidalgos. Allo stesso modo, la scelta religiosa è anche una fuga “dallo star soggette ad un uomo” come lei stessa scriverà. Perfino le regine non sfuggono al destino femminile di partorire al servizio dei disegni politici della monarchia. Teresa riuscirà ad affrancarsi dal destino che il suo sesso le ha disegnato restando figlia per sempre. Non è facile fuggire dal mondo. Teresa è una giovane donna che conosce le lusinghe dell’amore. Trascorre da un ricevimento all’altro, partecipa alle feste in onore della regina Isabella, e di Carlo V quando Sua
Maestà si ferma ad Avila a visitare la città. Eppure bisogna essere capaci di sfidare il mondo, di esiliarsi al di là di quel che sembra tutto, ed invece è niente. “Quanta cura ponevo per non perdere quello che credevo fosse l’onore del mondo! Nel cercarlo ponevo, da persona vana somma cura”. E poi prende la sua decisione, tiene testa al padre, uomo di fede ma che non vuol sentir parlare di convento. Riesce a convincerlo, ma deve sostenere una lotta durissima con se stessa. “Quando uscii dalla casa di mio padre, provai tanto dolore che non credo di sentirlo maggiore in punto di morte”. Diventare monaca, entrare nel claustro è, forse, anche una forma di risarcimento alla sfortunata dona Beatriz, poiché in spagnolo l’utero si chiama claustro materno. Diventare monaca è pareggiare i conti del nonno marrano e del padre che soleva leggere i libri sacri alla famiglia riunita. Il rapporto di Teresa con Dio è voluttuoso, ne partecipa il corpo che sposa la Passione di Cristo facendola sua, è la realizzazione del vero onore, l’attaccamento al Dio della Croce. E’ attraversata dalla passione e si identifica con questa sofferenza. Consapevole del raro privilegio che la sua condizione le offre, rivive come beatitudine tutta la sofferenza della Croce con i flagelli, le spine e i chiodi. Descrive i suoi rapimenti – l’uscita dalla propria condizione umana, sensibile – per diventare onda di un oceano che l’avvolge e la travolge. La figura del Dio-uomo, introdotta dal messaggio evangelico, rompe il rapporto tradizionale tra la divinità trascendente e l’uomo, separato dall’abisso della finitezza. L’orante si rivolge ad un Dio, l’Iddio infinitamente lontano dall’umanità mortale ferita dal peccato di Adamo. La rivelazione operata dal Cristo, congiunge nella sua umana persona ciò che da sempre era separato, l’umano e il divino, la trascendenza e l’immanenza, il tempo e l’eternità. Tutto nella sofferenza vissuta dal Dio incarnato. Teresa nel suo rapimento estatico, sperimenta letteralmente l’uscita da sé, come vera conoscenza del proprio io. Conoscersi perdendosi nell’amore dell’Altro. Il cammino dell’uomo alla ricerca della propria coscienza può avere molti inizi e infinite direzioni. Se la civiltà cristiana affonda le proprie radici nella filosofia greca, è Socrate l’iniziatore del dialogo che scopre l’interiorità dell’uomo come sua essenza, ed è Cartesio che la razionalizza nell’intuizione del “Cogito” come pensiero fondante dell’esistenza umana. Teresa, appena prima di Cartesio, fonda l’esistenza di sé fuori da sé. Si potrebbe definire, il suo, il terzo e sublime livello di conoscenza teorizzato da Spinoza, dopo quello fallace dei sensi e quello razionale dell’intelletto che procede per dimostrazioni. Abbandonate le plaghe del pensiero razionale che avvolge il mondo dell’esperienza nelle categorie della ragione, si parte per un’avventura magnifica che trascende l’esistenza individuale per trasportarla nei cieli dell’infinito Essere. Krist
eva interpreta il rapimento mistico di Teresa come un trasfert freudiano che realizza la conoscenza di sé nel legame con l’altro, in questo caso con Dio. E’ un mistero ineffabile. Mistero è termine greco, deriva da muo, stare chiuso, rinserrato, coltivare la propria interiorità inaccessibile e sprofondare nell’Altro. L’unione mistica è tema che si perde nel tempo, si nutre della filosofia medievale, la quale ha a sua volta un grande debito con la tradizione neoplatonica del perdersi nell’Uno-Bene e risale da questa al Platone profeta che fonda i cieli della metafisica abitati dai sommi archetipi, le divine idee del Bello, del Bene, del Giusto e approda nella contemplazione aristotelica del Divino come intelletto separato che attrae l’intero cosmo con la purezza intangibile della sua perfezione. La presenza del Cristo nell’Eucarestia, permette al credente l’inaudito privilegio di incorporare Dio. Mangiare del corpo di questo Dio incarnatosi per riscattare l’umanità. Com-unione. Quanto più la Chiesa trionfa nel tempo umano, si radica nelle abitudini dei popoli, scandisce i momenti centrali della vita dell’uomo, la nascita purificata nel battesimo, il matrimonio, sacramento dell’unione indissolubile tra l’uomo e la donna e la morte celebrata nel rito funebre dalla comunità, tanto più perde il mistero. La Chiesa si apre al mondo, conquista proseliti, diviene corpo sociale e perde il mistero. Il conflitto tra Lutero ed Erasmo tra Riforma e Controriforma, riguarda anche questa questione. Il monaco agostiniano aborre il rapimento mistico che considera un rigurgito di stregoneria, un cedimento alla lussuria carnale ed esalta il rigore morale che deve tenere a freno le tentazioni della carne, i cattolici della Controriforma invece, concedono dei varchi all’esito mistico della fede. Teresa e le sue visioni si inseriscono in questo contesto. Teresa è la santa della Controriforma. Prima che trionfi la razionalizzazione dell’esistente e la celebrazione del metodo scientifico di Galileo, Teresa fa in tempo ad innalzare un inno al desiderio del corpo, freudianamente sublimato nell’unione con il corpo di Cristo. Il barocco è il trionfo della sensualità nell’arte, del corpo esibito, delle chiese stracolme di smalti e ori, della ricchezza rigogliosa delle forme, che esprime in ogni dove il trionfo della creazione. Il secolo dei Lumi, il ‘700 francese, spazzerà via questo misticismo considerato una debolezza da esteti, La filosofia di Kant che esalta la fede illuminista nella ragione, farà della legge morale un imperativi categorico che ogni uomo deve imporre a se stesso. Un abisso separa il filosofo di Koninsberg dalla santa di Avila anche se entrambi appaiono lontani dalla decadenza morale e spirituale di oggi, ma il genitore A e il genitore B dell’attuale Spagna e perfino Pedro Almodovar sono figli di Kant, non certo della sensualissima ed eroticissima Teresa. Il tentativo del primo di imbrigliare l’umanità nella ferrea rete della legge morale, non pare aver sortito particolare successo, mentre la fuga di Teresa dal mondo, “Conosciti in Me” appare una follia incomprensibile ai più. Agli occhi dello psicanalista, il corpo femminile è istintivamente pronto all’abbandono perché è dimora del desiderio, essendo concepito come un unico organo sessuale inebriato dal desiderio dell’oggetto d’amore, che nel trasfert erotico si sottrae all’infinito, e si sublima nell’esperienza mistica. Hegel trova nei sermoni di mastro Eckhart, la descrizione dell’esperienza umana dell’abbandono nel “Grund”, l’abisso divino in cui perdersi per ritrovare autenticamente se stessi. L’angoscia della separazione è del resto un trauma dal quale secondo Freud, l’uomo non guarisce mai, per tutta la vita. Espulso dall’utero materno, per tutta la sua esistenza cercherà di sanare questa frattura, ritrovando la Madre. Gli esiti mistici diventano secondo questa lettura una modalità di ricomporre la lacerazione immergendosi nell’Altro che può essere inteso come Madre e Padre, un femminile che coincide con il maschile, un annientamento delle individualità e dunque un superamento della originaria separazione. Si toglie la nascita, morendo d’amore, immergendosi panicamente e divenendo corpo mistico. La grande differenza è che l’esperienza analitica,
non ha esiti trascendenti, mentre la fede è ovviamente al centro dell’incontro con Dio. Per la psicanalisi dunque, l’esperienza mistica è solo un rifugio, un tentativo di placare il bisogno di protezione ricongiungendosi alla Madre, la fine della tensione, il raggiungimento della quiete, indicibile e incomprensibile alla logica ferrea della razionalità. Si tratterebbe di liberare le pulsioni dell’Es dalla censura del Super-Io, soddisfacendole pienamente. E’ il dottor Charcot con cui il giovane Freud intraprende la sua carriera medica che definisce le sante “inconfutabili isteriche”. Fuori da una lettura psicanalitica e al riparo da essa, il furore mistico di Teresa riesce ad incamminarsi lungo lo stretto sentiero dell’ortodossia religiosa, sfuggendo al sospetto di eresia, e rafforzando la Chiesa cattolica in quegli esiti sovrannaturali di cui il popolo dei credenti è sempre affamato. Riuscendo anche a testimoniare questa esperienza estatica nella scrittura delle sue opere, e concretizzando nella fondazione dei conventi l’ansia di Dio che la divora. E’ capace Teresa al contempo di descrivere i suoi rapimenti, di parteciparvi con il corpo soggetto a paralisi, contorcimenti, crisi epilettiche, attacchi di anoressia e bulimia, digiuni feroci, penitenze e flagellazioni, e al contempo gestire la delicata questione della rifondazione di un Ordine, che richiede tatto, diplomazia, ma anche tenacia, ostinazione e durezza. L’originalità della sua esistenza è riuscire a percorrere un’esperienza – quella estatica, assolutamente individuale – e poi a costruire una comunità che si apre al mondo: non senza avere sfidato e vinto i sospetti dell’Inquisizione di avere a che fare con una donnetta esaltata.Teresa prende l’abito il 2 novembre 1536. Trascorre trent’anni della sua vita nel convento dell’Incarnazione, un edificio in cui “d’inverno la neve cadeva sui breviari e d’estate la canicola arroventa i muri”. Legge molto, scrive molto, descrive nei dettagli le sue esperienze di elevazione”. Alcune volte perdo quasi del tutto le pulsazioni, le mani sono così rigide che non posso congiungerle…”. Il patimento del corpo permette all’anima di godere la gioia ineffabile dell’incontro con l’Altro. Patimenti del corpo, sensualità femminile, arte letteraria, distacco dal mondo. “Dio mi rende così estranea dal mondo che mi pare che nessuna creatura sulla terra possa darmi compagnia”. Si tratta di passare la notte in un cattivo albergo. Addirittura Teresa teme che occuparsi del prossimo sia una forma di vanità, una ricerca di onori. Teresa si mette in ascolto di Dio. “Un giorno, dopo la comunione, Sua Maestà mi ordinò con fermezza di fare quanto era possibile “. Dio chiede a Teresa di prodigarsi per una riforma del Carmelo che riporti l’ordine alla originaria Regola di povertà e clausura. Non sarà facile vincere le resistenze degli altri ordini, geuiti e domenicani, oltre che del Carmelo stesso. Troppi equilibri da bilanciare, quasi nessuna rendita da investire, la suscettibilità delle consorelle non deve essere urtata. Ma Teresa procede spedita, forte della presenza di Dio nel suo cuore, sa che qualunque difficoltà può essere superata. “Mi sembra di non essere io a parlare, a volere, a vivere, ma che vi sia in me qualcuno che mi guida e mi dà forza”. Il primo convento nasce nell’agosto del 1561, intitolato a San Giuseppe. Teresa progetta la casa, disegna i piani, dipinge le pareti.Un’inconfutabile isterica: nei vent’anni che gli restano da vivere fonderà altri conventi. La Regola è rigida, le monache devono vivere del loro lavoro e non possedere nulla. Povertà, clausura, nessuno svago che possa allontanare la mente dal pensiero di Dio. E’ il definitivo distacco dagli agi famigliari, dal ricordo del nonno materno che aveva fatto fortuna sul commercio del superfluo, dagli onori mondani, dalla vita legata allo svago effimero. Sa anche essere dura con le consorelle, non sopporta quelle che si lamentano, le malate, le storpie. Non accetta il lato sdolcinato della femminilità, arriva a dichiarare che vorrebbe che le sue figlie in nulla si mostrassero donne ma uomini forti. Le fondazioni di Teresa di Gesù puntellano la Spagna che la suora percorre in lungo e in largo: Medina del Campo, Valladolid, Toledo, Salamanca, Siviglia, Granada. Teresa si fermerà solo per morire. Muore il 4 ottobre 1582 ad Alba de Tormes. Per vent’anni più di millecinquecento persone hanno testimoniato nel processo di beatificazione prima e di canonizzazione poi. Nel 1970 Paolo VI la proclamerà prima donna ‘dottore della chiesa universale’ insieme a Caterina da Siena. La sovraccoperta del libro di Kristeva riporta la splendida immagine della “Transverberazione di santa Teresa” di Lorenzo Bernini che si trova a Roma nella chiesa di Santa Maria della Vittoria. Teresa ha gli occhi e la bocca socchiusi, il volto riverso all’indietro, lo sguardo vigile eppure distante, come perduto. La fede di Teresa ha conosciuto la gioia mistica, estatica, della beatitudine ineffabile che si eleva oltre l’umano dire. Sarà seppellita in una nicchia della cappella dei duchi di Alba sotto un cumulo di terra, calce e pietre. Nel ricevere l’estrema unzione ripete “In fin dei conti, Signore, sono figlia della Chiesa”. Teresa di Gesù lascia questo mondo per risiedere nell’Altro, eternamente. Estaticamente. Esteticamente e inconfutabilmente.