sabato 30 agosto 2008

I Leoni morti



I leoni morti
€20,00
brossura, 288 pagine, 29 fot.
Quarta edizione
Ritter Edizioni
Non siamo mai stati, caro amico, ne disertori, ne di conseguenza Vicepresidenti del Consiglio dei Ministri, ma ricordiamo assai bene del detto di Napoleone: "Ciò che conta in guerra non sono gli uomini, è l'uomo cioè il soldato che sa battersi fino in fondo, difendendo un pezzo di terra o, contro ogni logica, un brandello di idea". Nel libro I Leoni Morti assistiamo alla difesa della Cancelleria del Reich da parte dei combattenti francesi della Divisione S.S. Carlomagno, il 2 maggio del 1945. Sapevano bene che tutto era perduto. Cosa facevano allora laggiù? Anche in Coulqualber, fine dell'Impero, di Rinaldo Panetta, vediamo i soldati del Colonnello Ugolini contrattaccare all'arma bianca e cadere su di una terra remota che l'Italia aveva civilizzata: per loro non v'era speranza, tuttavia perdettero in pochi giorni l'85% della loro forza. E così fu della Folgore ad El Alamein, così dei Giovani Fascisti a Bir El Gobi, così delle Camicie Nere della Tagliamento nella battaglia di Natale in Russia, così dei bersaglieri "cacciatori di carri" che combatterono col Maresciallo Rommel in Cirenaica, di aviatori e marinai italiani che compirono, durante l'ulimo conflitto, imprese inaudite. L'essenziale, rimane sempre l'uomo. Gli assediati dell'Alcàzar di Toledo, gli aviatori giapponesi Kamikaze, i fanti tedeschi combattenti sull'Oder nel 1945 e, più di recente, i difensori portoghesi di Carmona nell'Angola, appartengono alla stessa famiglia. Il loro onore è fedeltà. Ecco perche con questa lettera, vorrei, di là d'ogni frontiera, dedicare quest'edizione italiana alla nobile famiglia del Soldato.

giovedì 7 agosto 2008

L'amore al tempo del piombo

di Giovanni Tarantino



«Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che veramente ami è la tua eredità». Con riferimento a questi indimenticabili versi di Ezra Pound tratti dai Canti pisani, arriva in libreria Quello che veramente ami, primo romanzo di Riccardo Arena (Dario Flaccovio Editore, pp. 251, euro 13,50).
L’autore, palermitano, classe 1962, giornalista professionista, si occupa di cronaca giudiziaria al Giornale di Sicilia ed è corrispondente de Il Foglio e di Panorama, per le quali testate ha trattato i più importanti processi tenuti nel capoluogo siciliano, da Andreotti a Dell’Utri sino a Cuffaro. Già vincitore, nel corso della sua carriera, del premio “Cronista dell’anno” e di due premi “Informazione e sanità”, settore di cui è un vero specialista e su cui ha anche scritto un libro-inchiesta nel ’94, Sanità alla sbarra, approda ora alla narrativa con questo suo primo sorprendente romanzo.
La storia, ambientata nella Milano del ’77, con riferimenti alla Sicilia del ’68 e del ’92, narra di una controversa quanto romantica relazione sentimentale tra Enrico, detto il Tunisi, «fascista fino al midollo», e Monica, vicina all’Autonomia Operaia, ma bellissima agli occhi dell’innamorato emigrato che le dedica spesso le parole della celebre Era bella di Renato dei Profeti: «Che importa la gente / che importa soffrire / che importa morire / Era bella era bella / quella donna era tutto per me». Una storia d’amore tra un “nero” e una “rossa”, come viene simboleggiato dalle due ciliegie dei medesimi colori raffigurate in copertina, che ricorda come nell’Italia degli anni Settanta «poteva capitare di diventare “fasci” o “compagni” per valutazioni tutt’altro che politiche – come si legge nella prefazione di Giovanni Bianconi – per essere nati o abitare in un quartiere piuttosto che in un altro, per appartenenza familiare, per orgoglio, per riuscire a conquistare una ragazza, per un’amicizia, per un’ingiustizia subita o per una storia sentita raccontare chissà da chi».
Ma è soprattutto una storia d’amore “vera” e intensa, quella vissuta nel romanzo tra Enrico e Monica: tra politica, rugby, botte, feriti, violenza, gli albori dello spontaneismo armato di destra e l’onda crescente del terrorismo rosso, la relazione tra Enrico e Monica appare come un autentico incontro tra elementi di una stessa generazione che non aveva motivo di essere contrapposta. Non è il primo caso in cui possiamo registrare un’inversione di tendenza nel panorama letterario italiano. Da qualche tempo, infatti, non assistiamo più alla celebrazione degli anni Settanta “a senso unico”: un graduale fermento, che bisogna far risalire alla pubblicazione di romanzi come Il paese delle meraviglie di Giuseppe Culicchia e Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, e che passa attraverso Camerata addio di Pierluigi Felli, I rossi e i neri di Miro Renzaglia, Anni di porfido di Ferdinando Menconi, Io non scordo di Gabriele Marconi, Baci e bastonate di Augusto Grandi e Mamma stanotte non torno di Bibi Bianca, per concludersi appunto con Quello che veramente ami, sta portando negli ultimi anni alla ribalta diverse riflessioni non conformiste su quel periodo. E non solo: si ha l’impressione che, a differenza dei tanti romanzi scritti a cavallo degli anni Novanta che non davano mai voce in capitolo ai giovani collocati a destra, se non minimizzandone gli aspetti positivi e dipingendoli nella solita stereotipata veste di beceri violenti picchiatori, questa nuova ondata di autori non allineati abbia come prerogativa quella di dare voce a tutti i giovani, tralasciando l’aspetto delle appartenenze politiche, visto come secondario.
È proprio il caso di Quello che veramente ami, vera e propria icona dell’incontro generazionale tra ragazzi che innanzi tutto erano giovani, prima ancora di essere “rossi” o “neri”. Così, nel libro, percepiamo come l’amore e i sentimenti, la passione per il rugby che unisce esponenti di destra e di sinistra che giocano nella stessa squadra, il Clan, con le divise verdi ispirate a quelle dell’Irlanda, la musica dei Profeti piuttosto che di Francesco Guccini, Rino Gaetano o Lucio Battisti, l’apprezzamento assolutamente condiviso per la poesia di Ezra Pound, restituiscano i giovani alla loro dimensione naturale, ad un giovanilismo che prescinde ogni appartenenza politica.
E il tutto contestualizzato nell’anno simbolo di un intero movimento generazionale quale è stato il ’77. Non deve stupire la dedica a Pound, il poeta americano che nel libro viene apprezzato anche da esponenti della sinistra. Del resto proprio nel ’77 all’autore dei Cantos furono dedicati dei versi dal grande artista Andrea Pazienza, legato anch’egli a quella stagione creativa, che nella sua celebre poesia Amo dichiarò: «Amo Ezra Pound, fascista». E il poeta fascista viene ritenuto anche da Arena una vera e propria icona: «Il poeta americano, che fu ritenuto matto perché fascista, ha affascinato un’intera generazione per la sua capacità di non arrendersi. Lui che combatteva a parole e fatti il capitalismo che imperava negli Stati Uniti, ha regalato al mondo una visione onirica del fascismo, con versi bellissimi. E ancora oggi la frase "Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o non valgono nulla le sue idee, o non vale niente lui", campeggia sulla tomba di Giustino Blandi, uno dei migliori uomini di sempre della destra siciliana. Proprio quella frase riecheggiava nelle giornate del ’77». Un anno davvero cruciale nella vita pubblica e generazionale del nostro paese, quello, che secondo Arena «rappresenta un passo molto importante nella storia d’Italia. In quell’anno vengono fuori, come mai era accaduto in precedenza, le contraddizioni interne al mondo della sinistra. Alla Sapienza si assiste alla contestazione di Lama, mentre a Bologna il sindaco del Pci Renato Zangheri autorizza l’intervento dei blindati che arriveranno agli scontri con gli extraparlamentari che porteranno alla morte di Francesco Lorusso. Ma da lì a poco i giovani cominceranno a capire che la violenza non portava ad alcun risultato».
Così, ad esempio, la stessa contestazione nei confronti di Lama verrà accolta con entusiasmo anche a destra, da parte di aderenti al Fuan che individuavano nella creatività pittoresca degli “indiani metropolitani” lo stesso entusiasmo, la stessa voglia di portare “l’immaginazione al potere” che era stata dei dannunziani a Fiume. Di lì a breve cominciava la stagione delle sintesi, dei ragionamenti al di là della destra e della sini stra, categorie ormai desuete, della riscoperta della società civile e i giovani si ritrovavano su posizioni condivise sui grandi dibattiti degli anni Ottanta, come la questione ambientale o gli orizzonti d’Europa unita che l’ormai logoro muro di Berlino lasciava intravedere.
È questa una prospettiva condivisa dallo stesso Arena: «Gli anni Settanta sono stati per certi versi durissimi. Abbiamo dovuto assistere a morti assurde come quella di Mantakas, di Zicchieri, di Ramelli, la strage di Acca Larentia. Ma non credo giusto parlare di quel periodo solo alla luce della scia di sangue che ha lasciato. Bisogna ricordare che grazie alle suggestioni ereditate dal ’77 si venne successivamente a creare il tunnel che permise di uscire dalla stagione del terrorismo e della violenza. Si impose il senso di responsabilità, si ritenne che giovani vite non potevano più essere sacrificate a guerre che non appartenevano più a quelle generazioni». Poteva succedere quindi che Enrico e Monica, protagonisti di Quello che veramente ami e immaginifici emblemi della loro generazione, cantassero insieme a squarciagola, in macchina, come si utilizzava proprio in quegli anni, Dio è morto di Francesco Guccini.
Episodi che chi ha vissuto da adolescente o da giovane gli anni Settanta ricorda bene ancora oggi. «Del resto – prosegue Arena – concordo con il parere di Gemma Capra, la vedova del commissario Calabresi, una delle più rappresentative vittime della violenza degli “anni di piombo”, quando dice che i cinquantenni di oggi hanno nostalgia di quegli anni perché furono gli anni della loro gioventù. Non è certo nostalgia per la violenza quella: caso mai è il rammarico di chi vede ormai perduto il tempo in cui si fu ragazzi».
Enrico, in un trascorrere molto coinvolgente degli eventi, conquista Monica, inizialmente sulla pregiudiziale nei confronti del coetaneo “fascista”, che riteneva conoscitore solo di Faccetta nera e Battaglioni del Duce... Tutt’altro. il Tunisi, invece, sfoggia invece conoscenze musicali degne del suo periodo, così come in camera il poster che ha appeso non è certo quello di un gerarca ma del campione di rugby Jean Pierre Rives, quello che, secondo una celebre frase avrebbe «osato mettere la testa dove gli altri non hanno messo nemmeno i piedi». Un “fascista” libertario e nonconformista, a suo modo postsessantottino, Enrico, che si scontra ripetutamente col padre, che fascista – e combattente – lo fu per davvero durante la seconda guerra mondiale, che non condivide le scelte del figlio e lo rimprovera di combattere una guerra che non è sua.
E che sul finire del libro si interroga sulla stessa definizione che gli appare non idonea, rispondendo a un interlocutore immaginario: «Forse fascista non lo sono mai stato». E allora, se chiediamo ad Arena, cosa era realmente Enrico, scopriamo che «era essenzialmente e istintivamente un ribelle. Come tutti i suoi coetanei del tempo si è creduto a tratti rivoluzionario, ha pensato che il cosiddetto “sistema” dovesse essere rovesciato, ma lo ha fatto in maniera quasi inconsapevole, non capendo nemmeno di quale sistema parlasse. Un ribellismo spontaneo quello di Enrico che lo porta al contrasto col padre, a sua volta fascista. C’è tuttavia nelle idee di Enrico una mutazione della grande componente sociale del fascismo movimento, che fu autenticamente rivoluzionaria e che, come tutte le rivoluzioni, ha lasciato anche delle eredità positive. Quella componente storica della destra che ha vissuto a lungo all’interno del Movimento sociale italiano, attenta ai problemi sociali, e che ha portato in molti a chiedersi in cosa effettivamente un uomo politico come Alemanno fosse realmente “di destra”».
Il libro di Arena ha quindi il grande merito di superare ogni pregiudizio e di proporre una nuova ottica con cui guardare ai fenomeni politici e culturali del nostro tempo che «necessitano un superamento delle vecchie dicotomie politiche che oggi, qualora ancora non lo fossero, devono essere superate». E si può pure sostenere che anche attraverso questo romanzo è stato fatto un altro importante passo verso la costruzione di un immaginario condiviso.
Ed è possibile, infine, rintracciare la speranza, come si legge nella postfazione di Lirio Abbate, «che oltre all’amore tra i protagonisti emerga anche l’amore per la politica attiva, per la voglia di esserci e di partecipare, di lavorare per il bene comune. È questo un libro d’amore per i giovani che non ci stanno a rassegnarsi e che vogliono combattere, con la riscoperta degli ideali, una politica che oggi, come ricorda Guccini, è solo far carriera». Parafrasando il Luciano Ligabue di Una vita da mediano, invece, Lirio Abbate, indica come Quello che veramente ami inviti soprattutto a stare «lì nel mezzo» e a mettersi in gioco per costruire una società che non viva di apatia, di disimpegno o di antipolitica: «Per ritrovarsi, per riprendersi e per decidere da sé il proprio futuro».

mercoledì 6 agosto 2008

I Templari





I Templari - MOLLE J.V.
€12.91

Ecig, 1994




Le fiamme che avvolsero, la sera del 18 marzo 1314, Jacques de Molay e Geoffroy de Charnay, mettevano fine - per volere di Filippo il Bello, re di Francia - all'epopea che aveva portato i Templari dal ruolo di umili e casti protettori dei pellegrini in Terrasanta, a quello di una delle istituzioni economiche e militari più potenti e temute della Cristianità.
Custodi del tesoro dei Capetingi, ricchi in possedimenti e denaro, i "Fratelli del Tempio" erano retti da una rigida e minuziosa Regola, nata sotto l'influsso dell'ispiratore stesso delle Crociate, Bernardo di Chiaravalle. Segreta ma non arcana, la Regola getta una luce autonoma sulla vita quotidiana di questi cavalieri che, dopo aver accolto con monastico fervore la missione di garantire la sopravvivenza e la sicurezza degli Stati cristiani in Medio Oriente, esauritesi la fede combattente e la necessità sociale, furono le probabili vittime di superiori interessi e comuni viltà. I bagliori del frettoloso rogo sull'Ile-des-Javiaux, le accuse infamanti e infami rivolte contro i "Fratelli", i forzieri ricolmi d'oro hanno sollecitato, favoriti dalla segretezza di un ordinamento essenzialmente militare, la fantasia di molti studiosi e sedicenti tali, di curiosi ed azzeccagarbugli. Di fronte ad accuse astruse, difese non richieste, esoteriche speculazioni ed azzardate "ricostruzioni", è giunto il momento di cedere la parola a coloro che, delusi e silenti, affrontarono torture, abjuree ritrattazioni in un mondo ormai non più loro.

La storia di un Santo cancellato





Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: gli zelanti “revisionisti” che nel 1965 hanno soppresso il culto cinquecentenario del beato Simonino per ecumenica piaggeria verso gli ebrei, non avrebbero immaginato che proprio un professore ebreo li avrebbe smentiti e ridicolizzati. Lo stesso giorno in cui il Concilio Vaticano II partoriva la dichiarazione Nostra Aetate che liquidava duemila anni di dottrina cattolica sul rapporto tra cristiani ed ebrei, l’arcivescovo di Trento, mons. Gottardi, pubblicò la sua Notificazione circa il culto del piccolo Simone da Trento relegando il bimbo martire nei confini della leggenda. Si aboliva così la festa liturgica, il 24 marzo, e la grandiosa processione decennale. Veniva scacciata dalla chiesa la salma del piccolo martire, senza riguardo neppure per la sequela di miracoli ottenuti dalla sua intercessione. Ancora, si sconfessava l’atto con cui un Papa, Sisto V, concesse nel 1588 festa e messa propria in onore di Simonino, dopo che già nel 1584 Cesare Baronio ne aveva inserito il nome nel Martirologio Romano. Il “golpe” era compiuto, la memoria sepolta. Sinchè, martedì 6 febbraio, la verità si è presa una rivincita con un’intera pagina del Corriere della Sera, quella della Cultura. In un ampio servizio, il giornalista di origini giudaiche Sergio Luzzatto presenta “Pasque di sangue” di Ariel Toaff, edito da il Mulino. “Magnifico libro di storia – scrive Luzzatto – , studio troppo serio e meritorio perché se ne strillino le qualità come a una bancarella del mercato. Sostiene Toaff che dal 1100 al 1500 circa, alcune crocifissioni di putti cristiani, o forse molte, avvennero per davvero. Né a Trento nel 1475, né altrove nell’Europa tardomedievale, gli ebrei furono vittime sempre e comunque innocenti. In una vasta area geografica di lingua tedesca compresa tra il Reno, il Danubio e l’Adige, una minoranza di Ashkenaziti (ebrei di ceppo germanico, ndr) fondamentalisti compì veramente, e più volte, sacrifici umani”. Lo aveva già scoperto la Santa Inquisizione che, ad esempio, per l’omicidio rituale del Beato Simone condannò a morte 15 ebrei, rei confessi. Toaff , 65 anni, docente di Storia del Medioevo all’Università Bar Ilan di Tel Aviv, è arrivato alle stesse conclusioni con un lavoro di otto anni condotto alla testa di un’equipe d’una quindicina di ricercatori. Il professore, figlio del rabbino emerito Elio Toaff, trova meticolosamente riscontro (“al 100 per 100”) a tutti gli atti del processo inquisitorio e ne chiarisce, da storico del giudaismo, il movente. Non si tratta solo di un delitto in odio a Cristo, ma di un sacrificio propiziatorio in occasione della Pasqua ebraica. Se il sangue dell’agnello celebra l’affrancamento dalla schiavitù d’Egitto, “quale sangue – chiede Luzzatto – poteva riuscire più adatto allo scopo che quello di un bambino cristiano ucciso per l’occasione?”. A dispetto delle proibizioni disposte da molti rabbini, “frange estremiste” trovavano nei testi del giudaismo le motivazioni per compiere questi delitti: questa la conclusione di un libro coraggioso che poteva essere letto come condanna di ogni fanatismo. Invece chi ancora si pretende eletto da Dio ha chiuso la bocca al professor Toaff, imponendogli di ritirare dal commercio il suo dotto lavoro e costringendolo a ripubblicarlo con le dovute censure. E con la promessa “espiatoria” che gli utili saranno versati alla Lega anti-diffamazione ebraica.

martedì 5 agosto 2008

Fuoco Fatuo


FUOCO FATUO


Autore: Drieu La Rochelle Pierre
Editore: Mondadori
Pagine: 132
2008
€ 8,80


Pubblicato nel 1931, "Fuoco fatuo" è ispirato al suicidio dello scrittore surrealista Jacques Rigaut, uno dei più cari amici dell'autore, e traccia un affresco di una generazione e un'epoca tormentata che ha avuto in Drieu uno dei suoi più grandi cantori. Alain, il protagonista del romanzo, è il prodotto di una società alla deriva e al tempo stesso un uomo in rivolta, che rifiuta il mondo degradato e privo di valori "eroici" che lo circonda. Lo scrittore francese diventa qui l'osservatore quasi scientifico, per implacabilità e minuzia di analisi, degli ultimi giorni di un uomo che, già sconfitto dagli eventi e dalla droga, ha deciso di compiere l'unico gesto individuale ormai possibile per sfuggire alla menzogna dell'irrealtà quotidiana e per aderire, finalmente, alle cose.

'Ucciso in odio alla Fede': beatificato il primo sacerdote di Trieste infoibato nel 1946


CITTA’ DEL VATICANO - Benedetto XVI, accogliendo la richiesta del Vescovo di Trieste, Monsignor Eugenio Ravignani, ha concesso la beatificazione al Servo di Dio don Francesco Bonifacio (nella foto). La cerimonia avverra' a Trieste nel pomeriggio di sabato 8 ottobre e il Santo Padre sara' rappresentato dall'Arcivescovo Monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Don Bonifacio e' il primo beato delle foibe, fu gettato nelle voragini rocciose delle doline del carso triestino dove hanno trovato orribile morte migliaia di persone. Monsignor Ravignani ha fatto pervenire a Sua Santita' l'espressione della viva gratitudine della diocesi e della citta' di Trieste. Il rito di beatificazione si terra' nella cattedrale di San Giusto. Per Don Bonifacio - sacerdote istriano che per la sua bonta' e generosita' veniva chiamato 'el santin' - la Chiesa di Roma ha riconosciuto il 'martirio in odio alla fede'. Il religioso venne ucciso nel 1946 all'eta' di trentaquattro anni e la sua causa di beatificazione fu avviata nel 1957 dall'allora Arcivescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin.

Io, l'uomo nero


Io, l'uomo nero
Una vita tra politica, violenza e galera

Edizioni Marsilio
Autore: Concutelli Pierluigi; Ardica Giuseppe
Anno: 2008
Pagine: 220
Prezzo:14,00 €



Roma, 10 luglio 1976. Otto e trenta del mattino. Nel quartiere africano di Roma, c’è una Fiat “124” parcheggiata contromano. Dall’auto scende un uomo che impugna un mitra, fa qualche passo e spara. L’obiettivo è un altro uomo che si accascia senza vita. La vittima è Vittorio Occorsio, un giudice. L’assassino si chiama Pierluigi Concutelli.Gli anni di piombo visti da un protagonista, da un “cattivo”. Pierluigi Concutelli, pluriergastolano, ex terrorista nero ed ex comandante militare del Movimento Politico Ordine Nuovo, in questo libro si racconta senza sconti. Spiegando le ragioni di scelte così tragiche e il perchè dell’utopia della rivoluzione armata che scaraventò l’Italia in un clima da guerra civile. La vita da clandestino, le rapine, gli omicidi.Dagli anni delle scazzottate in piazza con i comunisti fino alle pistole e al sangue. Infine, l’arresto. Il 13 febbraio del 1977 gli uomini dell’antiterrorismo circondano uno stabile nel centro storico di Roma, in via dei Foraggi. Concutelli è in trappola. In manette davanti alle telecamere della Rai, si dichiara prigioniero politico e da quel giorno conoscerà solo il carcere.Pierluigi Concutelli non si è mai pentito e non si è mai dissociato dalla lotta armata. Ha 63 anni e quattro ergastoli da scontare (per insurrezione e per gli omicidi Occorsio, Buzzi e Palladino).Giuseppe Ardica (1971), siciliano di Enna, giornalista. Si è occupato di cronaca nera e giudiziaria. Oggi lavora a “Rai Parlamento”. Pierluigi Concutelli (1944), romano, neofascista, condannato a quattro ergastoli. Oggi usufruisce del regime di semilibertà lavorando per conto della SEB da oltre un anno.

L'ultima del diavolo






Pietrangelo Buttafuoco


L'ultima del diavolo
Mondadori
2008
Pagine 280
Prezzo € 18,00


Sua Eminenza Reverendissima, il cardinale Taddeo Reda di Giugliano, consigliere diplomatico della Santa Sede, è uno splendido principe di Santa Romana Chiesa. Uno di quelli fatti come una volta: molto nobile, molto capriccioso, molto snob, molto napoletano. E assolutamente al suo livello di uomo di gran mondo è il diavolo che si presenta a proporgli un patto davvero bizzarro. Nick Mac Pharpharel è infatti un demone di altissimo rango, che conosce alla perfezione Dante Alighieri nonché "le vele, gli sci, l'aoristo, gli ideogrammi, il sanscrito, i sacri testi, i cataloghi dei porno shop", oltre a ogni segreto della vita notturna newyorkese.Che cosa desidera il principe delle Tenebre dal principe della Chiesa? Una cosa da nulla: che venga definitivamente rovesciato dagli altari un santo del quale, peraltro, nessuno sa più niente. Si tratta del monaco Bahira, un eremita del deserto che a Bosra, in Siria, per primo riconobbe il segno della profezia nel ragazzino giunto con una carovana di Quraysh. Era Maometto quel giovane garzone, e che il profeta dell'Islam sia stato riconosciuto da un monaco cristiano attesterebbe quanto per alcuni è un'assodata certezza e per moltissimi uno scandalo insopportabile: l'iniziazione cristiana all'Islam.Occorre quindi cancellare ogni traccia di Bahira e soprattutto bruciare i papiri studiati dal santo, il libro sacro in cui si annuncia la venuta di un profeta tra gli arabi e che, seguendo un itinerario avventuroso attraverso i secoli e passando tra le mani di sovrani e condottieri, conferma quel legame di solidarietà profonda che si vorrebbe negare. Tutto questo mentre la Chiesa ortodossa persegue l'obiettivo contrario e tramite i propri emissari - il pope Pavel e la fascinosa doña Sabela, un'agente dei Servizi segreti russi - intende procedere alla santificazione di Bahira.Un thriller teologico, un sabba irriverente, scatenato, esilarante, questo romanzo di Buttafuoco. Avanti e indietro nello spazio e nel tempo, tra i grattacieli di New York e le capanne di santi eremiti strette d'assedio dai diavoli, tra le chiacchiere di alti prelati su terrazze di sciccosissimi ristoranti romani e il tintinnio di sacchetti pieni di anime dannate che i demoni agitano tra le dita come nacchere, una scorribanda "indiavolata" tra imam e asceti, cardinali e califfi, tentatori e tentati. Ma su tutto, sulla ridda grottesca di santi, umani e diavoli, sullo scandalo di Cristo e di Maometto come due raggi della stessa luce, emerge in queste pagine la commossa certezza che i libri allargano i confini e che la conoscenza e la comprensione uniscono i popoli almeno quanto l'ignoranza li divide e li avvelena.

domenica 3 agosto 2008

Henri de La Rochejaquelein


Se avanzo seguitemi!

Se indietreggio uccidetemi!

Se muoio vendicatemi!



Di Michele Fabbri


Questo era il motto del conte Henri de La Rochejaquelein, morto in combattimento a 21 anni, uno dei capi della grande rivolta che ha infiammato la Vandea nel 1793. Con questo spirito indomito e ribelle i monarchici affrontarono l’intolleranza repubblicana che appestò la Francia nel 1789 e che si estese come un’epidemia maligna a tutta l’Europa, dando origine a quel Regno dell’Anticristo che è la “modernità” nell’accezione ideologica del termine.
La Rivoluzione Francese aveva trovato terreno fertile a Parigi, dove l’avida borghesia cittadina e un’aristocrazia corrotta e smidollata si erano abbeverate col veleno dell’illuminismo nelle logge massoniche che pullulavano nella metropoli francese. Nelle campagne, invece, la nobiltà era vicina agli abitanti del territorio e amministrava con cura un’economia ancora prevalentemente agricola: il sistema feudale nelle campagne era sostanzialmente integro. Per questo gli abitanti delle campagne, anche quelli che appartenevano ai ceti sociali più umili, erano molto diffidenti verso le novità che venivano dalla capitale. La regione della Vandea, in particolare, manifestò segni di forte malcontento che sfociarono in rivolte armate quando il governo repubblicano ordinò la deportazione del clero che rifiutava di prestare giuramento alla Repubblica. Molti sacerdoti, infatti, preferirono andare incontro a un glorioso martirio piuttosto che accettare le logiche demoniache del potere repubblicano. Poi, quando la Repubblica, ormai sotto il ferreo controllo di Robespierre, comincia ad arruolare i contadini per le sue guerre “patriottiche”, la rivolta diventa endemica: ovunque vengono distrutti gli “alberi della libertà”, simbolo odioso del terrore rivoluzionario.
Messi di fronte all’eventualità di rischiare la vita, gli abitanti della Vandea non hanno dubbi: meglio morire per Dio e per il Re che per la Repubblica. Così comincia la guerra civile fra i “Bianchi”, legittimisti monarchici, e i “Blu”, repubblicani. I ribelli legittimisti ottenero dei brillanti successi fra il marzo e il settembre del 1793 contro le armate repubblicane, arrivando a radunare sotto il vessillo della monarchia un nucleo iniziale di 20.000 uomini, guidati da comandanti abili ed esperti fra i quali si mette in luce François Athanase Charette de la Contrie, oltre al già citato Henri de La Rochejaquelein. Tuttavia i contadini vandeani sono combattenti non professionisti, e dopo le battaglie tornano alle rispettive abitazioni, per cui i repubblicani hanno il tempo di organizzare le opportune contromosse ed inviano nella regione 70.000 uomini.
Il conflitto si estende e diviene sempre più crudele assumendo il carattere di una guerra totale: la Repubblica sta perdendo la faccia di fronte a masse di contadini armate di forcale e i governanti repubblicani sono decisi a portare avanti la distruzione completa della regione, mettendo in atto uno sterminio intenzionale della popolazione vandeana. I repubblicani mandano altre truppe in Vandea, e alla fine del 1793 la rivolta è quasi totalmente soffocata nel sangue. Le armate repubblicane, ormai tristemente note come “colonne infernali”, si abbandonano ai peggiori eccessi contro la popolazione civile: in alcuni villaggi tutti gli abitanti vengono sistematicamente sterminati, e i loro cadaveri vengono bruciati in appositi forni crematori. La fantasia sadica dei repubblicani arriva ad inventare una singolare modalità di esecuzione dei prigionieri: i condannati, legati fra di loro, sono stipati su battelli che vengono fatti affondare nella Loira! Si calcola che le vittime arrivino al numero di 300.000, circa un terzo della popolazione della zona (se si considera la densità di popolazione dell’epoca, si tratta di una cifra impressionante). Lungi dall’abbandonare il fronte, la Controrivoluzione, dopo lo scacco subito, si riorganizza, anche grazie all’aiuto dell’Inghilterra che invia una flotta a sostegno degli insorgenti. La guerra si protrae fino al 1796, quando i repubblicani, dopo aver piegato le truppe ribelli, mettono a segno un importante successo: Charette viene catturato e fucilato. La Resistenza, privata del suo comandante più capace, non riesce più a organizzare un’azione militare vera e propria, anche se non mancheranno tentativi di riattivare l’insorgenza in età napoleonica.
Emblema della rivolta vandeana è il Sacro Cuore di Gesù, molto diffuso nella regione in quanto simbolo preferito del Beato Luigi Maria Grignon de Montfort, personaggio molto popolare in Vandea, che aveva diffuso una particolare devozione per questa immagine. Il Sacro Cuore, dopo le grandiose gesta della Resistenza controrivoluzionaria, divenne celebre anche come “Croce della Vandea”. Alla storia e alla diffusione di questo simbolo ha dedicato un breve opuscolo Louis Charbonneau-Lassay, insigne studioso di simbologia cristiana che ha scritto opere monumentali sull’iconografia del Cristo. Simboli della Vandea raccoglie una serie di immagini del Sacro Cuore che l’autore ha visto personalmente e che ha riportato nel libro sotto forma di disegno e, ove possibile, racconta le storie particolari legate alle singole immagini, generalmente dipinte su stoffa per essere appuntate al vestito, ma a volte anche incise sulle armi, oppure portate sotto forma di orecchino o di anello.
La democrazia moderna, figlia della ghigliottina, è sfociata nel totalitarismo democratico che soffoca le coscienze del mondo occidentale sedicente “libero”. Lo stesso Charette ha definito l’inconsistenza dell’idea di “patria” uscita dalla Rivoluzione Francese, rivolgendosi ai suoi uomini con queste parole: «la nostra patria per noi sono i villaggi, i nostri altari, le nostre tombe. Tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra patria è la nostra Fede, il nostro Re. Ma la loro patria che cos’è per loro? Voi lo capite? Loro l’hanno in testa, noi la sentiamo sotto i nostri piedi». Nella guerra di Vandea si delineano due modelli antropologici inconciliabili: l’uomo della Tradizione da una parte, l’uomo moderno creato dalla Rivoluzione dall’altra. Victor Hugo ha evocato con grande efficacia il tipo umano dell’abitante delle campagne in epoca prerivoluzionaria: «Si pensi a questo selvatico, serio e singolare, a quest’uomo dagli occhi chiari e dai capelli lunghi, che si nutre di latte e di castagne, di guardia al suo tetto di foglie, alla sua aia, al suo fossato, che distingue ogni villaggio da quello vicino dal suono della campana, che si serve dell’acqua solo per bere, che porta un abito di cuoio con arabeschi di seta… che venera il proprio aratro ed i propri avi, che crede alla Santa Vergine e alla Dama Bianca, che è devoto all’altare e all’alta pietra misteriosa in mezzo alla landa, lavoratore nella pianura, pescatore sulla costa, fedele ai Re, ai suoi signori, ai suoi sacerdoti; pensoso, immobile spesso, per ore intere sulla grande spiaggia deserta, ascoltatore del mare… Le donne vivevano nelle capanne e gli uomini nelle cripte; esse portavano da mangiare agli uomini… Improvvisamente andavano a farsi uccidere, lasciando la tana per il sepolcro… I Bianchi inseguivano sempre; i Blu mai, perché avevano il paese contro di loro… Molti non avevano che picche… Erano combattenti straordinari, spaventevoli, intrepidi. Il decreto di arruolamento di trecentomila uomini aveva fatto suonare le campane di seicento villaggi. L’incendio scoppiò sotto tutti i ponti… Quando i contadini attaccavano i repubblicani, se incontravano sul campo di battaglia una croce o una cappella, tutti cadevano in ginocchio e dicevano la loro preghiera sotto la mitraglia; finito il rosario quelli che restavano si rialzavano e piombavano sul nemico… Quando attraversavano un bosco repubblicano, spezzavano l’albero della libertà, lo bruciavano e ballavano in tondo attorno al fuoco. Facevano quindici leghe al giorno, senza piegare un’erba al proprio passaggio. Venuta la sera, caricavano i fucili, sussurravano le loro preghiere, levavano gli zoccoli e in lunga fila attraversavano i boschi a piedi nudi, sul muschio e sulle pagliuzze, senza un rumore, senza una parola, senza un soffio».
Naturalmente il genocidio della Vandea è una delle più imbarazzanti questioni storiografiche per la paludata e sclerotizzata cultura ufficiale. In Francia il Prof. Reynald Secher ha dedicato all’argomento studi approfonditi, il cui taglio revisionista ha inquietato la cultura “democratica”, che ha tentato di fermare Secher alternando le minacce ai tentativi di corruzione. Tuttavia Secher ha tirato dritto per la sua strada dando vita anche a una casa editrice le cui pubblicazioni hanno conosciuto notevole interesse da parte del pubblico. Le gesta eroiche della Resistenza vandeana non cadranno nell’oblio, e saranno sempre un fulgido esempio di libertà che deve stimolarci a combattere la violenza rivoluzionaria, che oggi ha assunto il volto mostruoso della globalizzazione.


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Bibliografia
Louis Charbonneau-Lassay, Simboli della Vandea. Emblemi ed insegne dell’armata controrivoluzionaria, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 1993, pp.94, euro 8,00, www.ilcerchio.itGian Pio Mattogno, La Massoneria e la Rivoluzione Francese, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1990, pp.112, euro 7,80, www.insegnadelveltro.itReynald Secher, Il genocidio vandeano, effedieffe edizioni, Milano, 1989, pp. 384, euro 18,00, www.effedieffe.com, www.reynald-secher-editions.comJean-Clément Martin, Blancs et Bleus dans la Vendée déchirée, Gallimard, Paris, 2001, pp.192, euro 12.83, www.decouvertes-gallimard.fr

sabato 2 agosto 2008

Forza outsider! Stagione vulcanica per i lettori non conformisti

Di Roberto Alfatti Appetiti
Orientarsi è difficile, nel mare magnum dei libri che affollano le librerie. Ne arrivano sempre di nuovi, a scalzare pile di volumi intonsi eppure destinati al macero. Pagine piene di aspettative – accarezzate da incoraggianti recensioni – destinate, nella migliore delle ipotesi, a una vita da magazzino o a girovagare tra polverose bancarelle di provincia. Per la disperazione delle case editrici, soprattutto delle piccole. E piccola, anche se autorevole – specializzata com’è in controstoria risorgimentale – è Controcorrente di Pietro Golia. Negli ultimi anni, peraltro, la casa editrice napoletana ha sviluppato un’offensiva a tutto campo aprendosi a nuovi filoni di interesse. Giuseppe Giaccio, direttore editoriale e autore del recente Storie francescane (pag. 64 € 10), ha appena terminato la traduzione de Il 68 della Nuova destra, una versione riveduta e ampliata in occasione del quarantennale dell’opera collettanea edita dieci anni fa. Tra pochi giorni – ci assicura – sarà nella mani di Golia e quindi in tipografia. Mentre tra poche settimane sarà la volta di Pensiero ribelle, il primo di tre volumi dedicati a Alain De Benoist. Definito dallo stesso intellettuale francese «il testo più importante per chi volesse avvicinarsi alle mie idee», il libro raccoglie oltre quattrocento pagine di interviste sugli argomenti più disparati. Di argomento religioso, invece, è il terzo volume di De Benoist, dal titolo provvisorio di Gesù e i suoi fratelli. Ma non è tutto. Sempre per la casa editrice napoletana è in uscita Il genio della tradizione di Marco Iacona: quaranta interviste a personaggi di spicco della cultura non-conforme italiana sul pensiero di Julius Evola. Introduzione – neanche a dirlo – di Gianfranco de Turris. Di Iacona – classe ’64, studioso siciliano con tanto di tesi su Ernst Jünger e dottorato di ricerca su Julius Evola, oltre che collaboratore di Nuova Storia Contemporanea e del Secolo d’Italia – proprio in questi giorni è in uscita anche un altro libro: 1968. Le origini della contestazione globale (pag. 160 € 10 Marco Solfanelli editore), documentatissima ricerca sulla pubblicista di destra di quegli anni.Di un altro Sessantotto si è occupato invece Antonio Carioti, giornalista del Corriere della Sera, nel suo Gli orfani di Salò (sottotitolo: Il Sessantotto nero dei giovani neofascisti nel dopoguerra 1945-1951, pag. 296 € 17,00 Mursia). Sì, perché la tesi di fondo è proprio questa: prima di un 68 rosso ce n’è stato uno nero. Ad animarlo, nell’immediato dopoguerra, migliaia di giovani neofascisti che egemonizzano le scuole medie superiori e persino le università, guidano le più affollate manifestazioni studentesche dell’epoca, quale quella per il ritorno di Trieste alla madrepatria. Anche se rifiutano l’Italia democratica, De Gasperi ne sdoganerà ante litteram “la sincerità dell’amore di patria”. Occupano le università (a Pisa e Napoli con i comunisti) ma anche la sede nazionale del partito, contestandone la linea conservatrice. Insubordinati e ribelli, non chiedono l’autonomia politica: se la prendono. Dimostrano una capacità di elaborazione culturale che va al di là del primato dell’anticomunismo e del nostalgismo fine a se stesso pubblicando riviste di spessore.«Un secondo volume che arrivi fino al ’56 – ci anticipa Carioti – è in preparazione e racconterà come molti di questi giovani si disperderanno tra scissioni e attività giornalistica (ad esempio Fausto Gianfranceschi e Mario Tedeschi). Il loro, però, non sarà un togliersi di mezzo. Come talpe che scavano sino a scuotere l’albero, contribuiranno a tenere viva una cultura di destra sommersa che risulterà determinante per l’affermazione elettorale di An negli anni Novanta, paradossalmente senza beneficiarne».Rimanendo in tema di fascismo, entro settembre tornerà disponibile Fascio e Martello. Viaggio per le città del Duce di Antonio Pennacchi (Laterza, 368 pag. € 18) in una edizione più aggiornata rispetto a quella della Asefi. «Le città del duce erano 12 in tutto – puntualizza Pennacchi, autore di romanzi di successo come Il fasciocomunista (Mondadori) ma anche grande specialista in bonifiche e costruzione di nuove città – e con me sono arrivate a 140. Mi hanno copiato tutti ma le opere che vedo in giro sono solo elenchi pieni di fregnacce».Arianna Editrice, la piccola ma combattiva casa editrice di Eduardo Zarelli, invece punta tutto sull’attualità. E cosa c’è di più attuale dell’emergenza rifiuti che vive la Campania? Così a giugno manderà in libreria Lo stivale di Barabba ovvero l’Italia presa a calci dai rifiuti di Stefano Montanari, scienziato bolognese e divulgatore di fama mondiale, affrontando con competenza la situazione attuale e soprattutto valutandone le prospettive.Ma non si vive di soli saggi e il richiamo della narrativa non va eluso. Les afreu (Mursia) – il libro di Ippolito Edmondo Ferrario (’76), scrittore e mercante d’arte milanese, sulle “terribili” vicende dei mercenari italiani in Congo – dovrebbe vedere la luce entro l’estate. Accantonate per il momento le avventure della sua creatura letteraria – il detective-gallerista Leonardo Fiorentini, protagonista de Il pietrificatore di Triora e Il collezionista di Apricale (2006 e 2007 Frilli editore) – e le ricerche che hanno dato vita a Milano Sotterranea e misteriosa (scritto con Gianluca Padovan, Mursia 2007), Ferrario è occupatissimo nell’ultima revisione del testo. Aspettiamo.Appena uscito è Morire è un attimo (pag. 240, € 14, Edizioni Angolo Manzoni), primo romanzo del torinese Giorgio Ballario, (’64), già redattore de Il borghese e dal ’99 a La Stampa. Location: l’Africa “italiana” del 1935. Un noir incalzante significativamente ambientato – come ha scritto nella prefazione Domenico Quirico - «in luoghi che nessuno scrittore italiano, al contrario di quanto accaduto in Francia e Inghilterra, ha mai ritenuto sfondo efficace e profondo da poter leggere in controluce quanto estremo e forte fosse il mutare del nostro paese».A cavallo tra il noir e il romanzo storico è anche Congiura (pag. 408 € 18 Mursia), la quarta prova di Davide Mosca. Nato a Savona nel ’79 e milanese d’adozione, una laurea in Storia antica, Mosca si è cimentato a lungo con il pugilato prima di dedicarsi a tempo pieno all’editoria e alla scrittura. Ha esordito nella narrativa nel 2001 con Le parole che cadono nel vuoto non fanno rumore e con Mursia ha già pubblicato Silla. Il figlio della fortuna (2003) e Silla Imperator (2006). Stavolta, però, a occuparsi – su mandato di Cicerone – della congiura più famosa di tutti i tempi, quella di Catilina, è il giovane e disincantato detective Mamerco Mamilio, un Marlowe ante-litteram, una sfortunata canaglia che spende tutti i suoi soldi in donne e libri e si aggira in una Roma buia, marcia, fra bordelli, palestre e taverne in un romanzo che contamina un’originale ricostruzione della Roma repubblicana con seducenti atmosfere moderne.«Dichiaratamente tolkieniano» è il romanzo fantasy Il Regno Nascosto di Gabriele Marconi ed Enrico Passaro (pag. 368 € 18,50 Dario Flaccovio Editore), atteso in libreria per il 12 maggio. L’idea della storia, nata nel 1983 e ispirata a una canzone di Marconi scritta nel 1982, Il Regno dei Nani, venne annotata dallo stesso Marconi su un taccuino per poi essere rielaborata recentemente a quattro mani. «Si tratta di un omaggio a Tolkien – ci ha spiegato Marconi, direttore responsabile del mensile Area e apprezzato narratore di Io non scordo, romanzo pubblicato dal Settimo Sigillo di Enzo Cipriano e poi ristampato da Fazi nel 2004 – e le vicende sono ambientate nella IV Era, naturalmente adattata, con ricordi di personaggi del Signore degli Anelli in filastrocche, leggende e canzoni. Nel libro ce ne sono quattro, tre mie e Tramonto di Francesco Mancinelli». La trama è nel viaggio: Althorf e i suoi due nipoti, Vitur e Tekkur, sono gli unici Nani rimasti nel villaggio di Cuterbor. Dopo aver condiviso il mondo con gli Uomini abitando quartieri all’interno delle loro città, i Nani hanno infatti deciso di tornare ai tempi antichi, lasciando le loro case per cercare un luogo adatto a ricostruire il loro regno. Impastato di realtà, invece, e in libreria da pochi giorni, è Contronatura (pag. 464 € 18 Bompiani), l’ultimo romanzo di Massimiliano Parente (Grosseto, 1970), collaboratore di punta delle pagine culturali di Libero. Il libro è all’altezza delle aspettative: la scrittura è tagliente, irriverente eppure comica, paradossale nel raccontare le peripezie di uno scrittore che vuole diventare un autore tv e che per mettersi in luce combatte proprio la tv in un mondo dai valori rovesciati.La Marsilio non sta a guardare e il prossimo luglio ripropone – salvandolo dal destino ingeneroso di remainders Mondadori – Parenti lontani di Gaetano Cappelli (€ 9,50 416 p.), giudicato tra i migliori cinque libri del 2000, il più bel romanzo sul sogno americano visto da un giovane meridionale, Carlo, diviso tra l’amore per le radici e il richiamo di quel grande continente. «Mio padre – ci ha raccontato Cappelli – aveva fatto di una celebre frase di D’Annunzio il suo motto personale: “Ama il tuo sogno se pure ti tormenta”. I sogni vanno coltivati e quello americano rimane, senza dubbio, il più grande di tutti».Bisognerà aspettare agosto – invece – per leggere La città perfetta (€ 17,60 450 p. Garzanti) di Angelo Petrella, trentenne autore napoletano di Nazi Paradise e Cane rabbioso (Meridiano Zero) che, come nella migliore tradizione noir, maneggia disinvoltamente uno stile duro e corrosivo in cui si mescolano Quentin Tarantino con Abel Ferrara, la cultura pop con il bianco e nero del neorealismo. Céliniano per esplicita ammissione, Petrella si misura con la sanguinosa guerra dei piccoli boss della camorra negli anni in cui il movimento della Pantera occupa scuole e atenei. Per chi non volesse pazienzare, infine, c’è Mani nude (pag. 430 € 19 Rizzoli) – iniziazione alla violenza di un moderno gladiatore in uno scenario che richiama il Fight Club di Palahniuk – della milanese Paola Barbato (’71) sceneggiatrice storica di Dylan Dog al suo secondo romanzo dopo la bella prova di Billico (Rizzoli 2006). Oppure ci si può tuffare nel primo romanzo di Sergio Caputo, Disperatamente e in ritardo cane (pag. 286 € 15,50 Mondadori), esilarante autobiografia “fictionalizzata” dell’artista che con il suo inconfondibile swing e canzoni come Sabato italiano e Italiani mambo ha seppellito definitivamente la stagione della musica ideologica degli anni Settanta. Sergio Caputo presenterà il libro il 22 maggio a Milano (libreria Fnac di via Torino, ore 18) e il 23 maggio a Roma (libreria Mondadori in via del Corso, ore 18.30). Nell’occasione, per muoversi nella Capitale, si consiglia la Guida “senza luoghi comuni” S.P.Q.R. Sacri e profani questi romani (Edizioni Sonda) di Giuliano Compagno (’59), vulcanico autore di ben 17 volumi tra saggistica, comica e narrativa, tra cui i romanzi Generazione zero, L'assente, Il sesso è una parola, Memoria di parte sino ai più recenti Critica della ragion pubica e Siamo come negozi (Coniglio editore). La Guida - «scritta durante il giovedì nero di Wall Tort (Muro Torto), quando sono rimasto incolonnato nel traffico per tre ore e venti minuti mancando dodici appuntamenti filati, record europeo» - è una rilettura in chiave autoironica di una città nei cui confronti Compagno ha «un approccio critico che muta in vera e propria adorazione quando la insultano». Perché si sente intimamente romano in almeno sei occasioni: «Quando gusto una carbonara; quando vedo un film con Aldo Fabrizi; quando leggo i versi che Dante dedicò a Traiano; quando Roma o Lazio espugnano San Siro; quando contemplo un’immagine di Silvana Mangano e quando in qualsiasi parte del mondo posso dire “Sono di Roma!” e tutti capiscono da dove vengo».

Gli anni Settanta di chi stava con Will Coyote


Di Giovanni Tarantino


Il primo a squarciare il velo nell’ambito dell’immaginario è stato a suo tempo Daniele Luchetti quando, parlando del suo film Mio fratello è figlio unico, ammetteva la necessità di raccontare le tre grandi chiese italiane del Novecento: i cattolici, i comunisti ma, anche, i fascisti. «La forza popolare del Msi - sottolineava il cineasta - non è stata ancora mai raccontata. Dal 1963 al 1974, nella stagione in cui i giovani diventarono una categoria fondamentale, il mio personaggio ha spiegato agli spettatori che i fascisti non sono stati soltanto dei torbidi picchiatori».Sulla stessa linea la successiva ammissione, qualche anno dopo, di un’altra cineasta, regista e attrice, Francesca D’Aloja, che in una lunga intervista a Io donna, intitolata “Parioli e maritozzi, la mia Roma anni Settanta”, ammetteva: «Nei Settanta sono nate molte cose, io le respiravo attraverso i miei fratelli, uno di destra e uno di sinistra. La destra mi affascinava di più: il senso eroico della vita, valori classici come l’amicizia e l’onore. Mi colpisce molto che dopo trent’anni sono ancora lì a ricordare i loro morti, da Mantakas in avanti. Poi sono arrivati gli Ottanta e i Novanta e lì mi sono tappata il naso…».Ecco, adesso arriva in libreria un libro che quello stesso universo ce lo racconta con la forza di una vera e profonda “presa diretta”. E’ il primo romanzo di Vincenzo Cerracchio, si intitola Due soli, ed è stato pubblicato dalla casa editrice “Il filo” (pp. 193, euro 12). Cerracchio, giornalista de Il Messaggero, si diletta in un gradevole racconto, ad ampi margini autobiografico, in cui si narra dell’adolescenza di un giovane degli anni ’70 che si chiama Marco, vissuta tra gli amori, oltre che per le ragazze che incontra per la Lazio, squadra del cuore che non viene mai abbandonata nemmeno in improbabili trasferte perchè, del resto, «si tifa per Joe Condor o per Willy Coyote contro Beep beep un po’ come si fa per la Lazio. Prima o poi la sfiga passerà». Indole ribelle e anticonformista innanzitutto.Un’adolescenza che si muove tra le ansie dei liceali e l’attesa degli esami di maturità, tra la militanza politica (a destra) e a cui fanno da sfondo canzoni e letture simbolo di quegli anni. Non a caso già dalla prima pagina si leggono due passi dedicati alla gioventù. «Da ragazzo ho giurato a me stesso di restar fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola» di Pierre Drieu La Rochelle e «…senza perdere la tenerezza» di Ernesto “Che” Guevara. Letture forti e impegnate negli anni ’70, e proprio su Guevara, Cerracchio fa esprimere al suo protagonista una tesi davvero suggestiva: «Che Guevara ha avuto sempre il suo fascino su di me, la sua struttura eroico-solitaria, quell’aria da santo laico che avrei voluto approfondire». Sembra uscire fuori direttamente da Una passione per Che Guevara, del francese Jean Cau…E’ uno spaccato, insomma, di quell’Italia cresciuta giocando con le figurine, e che innocentemente scopriva «con una certa diffidenza i dettagli che distinguevano l’Inter dall’Atalanta o il Milan dal Foggia. Quanti bambini bergamaschi saranno finiti interisti per errore? »-come si chiedeva legittimamente il protagonista da bambino ironizzando sulle similitudini cromatiche tra diverse squadre- o che non trovava nella cartina geografica città come “Atalanta” e “Sampdoria”, e che invece crescendo si ritrova a dovere assistere a tragedie come il rogo di Primavalle, che vengono menzionate nel libro di Cerracchio, e soprattutto, a viverle “da destra”.D’altronde il profilo designato da Cerracchio prospetta in Marco un tipo di giovane nel quale si potranno identificare in molti: « Non mi ero iscritto, no a niente. Niente partiti, niente movimenti. Entravo a scuola, sfondando i picchetti, quando c’erano gli scioperi di sinistra, partecipavo alle manifestazioni per Trieste e contro Tito. Ma senza lasciarmi inquadrare. Leggevo poco. Mishima, La Rochelle, Celine: romanzi più che saggi. Roba definita di destra ma niente di strettamente ideologico. Scalare Julius Evola, arrivare a metà de Gli uomini e le rovine era già stata un’impresa. Poi avevo rinunciato». E prosegue: «Laziale e di destra. Per il mondo che ti guarda e ti giudica non è proprio il massimo della vita. Per me lo era. Perché uno se le porta dentro le scelte controcorrente».C’è anche Lucio Battisti in quegli anni in mezzo a ricordi propri e a quelli degli amici dell'epoca: ci sono amori che vanno e vengono, gli esami di maturità, gli scontri di strada, gli slanci sociali, le canzoni, i caroselli. Ci sono i giovani che strimpellano De Gregori e la sua Alice appena uscita sui gradoni di Piazza Santa Maria in Trastevere: « “Alice guarda i gatti e i gatti guardano Alice” stonava Bruno. Molto De Andrè. La guerra di Piero: “Mille papaveri rossi”. Rossi. Battisti no. Battisti era di destra. “Planando sopra boschi di braccia tese…” ce l’eravamo scelta prima noi. Come Tolkien. Battisti parlava d’amore e loro erano tutti presi dalla rivoluzione».Se dubbi ha lasciato l’appartenenza alla destra di Battisti, non ci sono perplessità sul suo tifo calcistico per la Lazio, altro punto cruciale di Due soli: è infatti presente nel libro la Lazio del ’73, quella di Chinaglia, Wilson, Re Cecconi e dell’allenatore Tommaso Maestrelli, che sfiora lo scudetto appena un anno dopo essere ritornata in serie A e che lo vincerà esattamente un anno dopo, al termine della stagione ’73-’74. Uno dei periodi più belli nella vita di Marco, protagonista-tifoso, in cui i successi degli aquilotti si alternano alle vicissitudini della sua relazione con Betta, la sua fidanzata, e che fornisce punti di riferimento precisi comprensibili solo da chi è tifoso, anche se di altre squadre.Nell’insieme il libro di Cerracchio fornisce l’idea di un’inversione di tendenza nel panorama della nuova narrativa italiana. Il fatto che da qualche tempo i romanzi sugli anni ’70 diano spazio e voce anche a protagonisti che stavano a destra testimonia una ritrovata maturità e un progressivo allontanamento dagli stereotipi. E’ già accaduto inzialmente con il libro di Giuseppe Culicchia Il Paese delle meraviglie e Il Fasciocomunista di Antonio Pennacchi, che hanno alimentato un fermento che passa attraverso Camerata addio di Pierluigi Felli, I rossi e i neri di Miro Renzaglia, Anni di porfido di Ferdinando Menconi, Io non scordo di Gabriele Marconi, Baci e bastonate di Augusto Grandi, Mamma stanotte non torno di Bibi Bianca, Quello che veramente ami di Riccardo Arena, e che si conclude appunto con questo recentissimo Due soli. Tutto ciò sta portando negli ultimi anni alla ribalta diverse riflessioni non conformiste su quel periodo.Merito di Cerracchio è quello di aver saputo cogliere lo spirito profondo di chi in quegli anni stava “a destra” e che magari, come Marco, amava leggere Il gabbiano Jonathan Livingston. Viene sottolineato il passaggio da un’epoca di spensieratezza e leggerezza adolescenziale, quando bastava un pallone di cuoio e un mazzo di figurine per toccare il cielo, a quella dell’impegno politico, degli scontri di piazza e, ahinoi, anche delle prime tragedie terroristiche.Ma sempre restando fedele alla propria giovinezza. Come del resto suggeriva anche Drieu La Rochelle.



Giovanni Tarantino è nato a Palermo il 23 giugno 1983. Collaboratore del Secolo d’Italia, si è laureato in Scienze storiche con una tesi dal titolo Movimentisti. Da Giovane Europa alla Nuova destra

venerdì 1 agosto 2008

Fascisteria


Ugo Maria Tassinari


2008
pp. 736

€ 14,00

Da Julius Evola alla beffa neofuturista della Fontana di Trevi: la mappa definitiva della destra radicale e dell'eversione nera in un atlante umano che traccia sessant'anni di idee, battaglie, crimini e misteri.


Dai reduci di Salò in cerca di una nuova trincea, ai neonazisti candidati alle elezioni locali, dai terroristi ragazzini che si bruciano in pochi mesi, agli "ambigui arnesi" da servizio segreto, dai cattolici integralisti ai neopagani che celebrano il solstizio d'inverno, passando per i "gladiatori" e i sostenitori dell'Islam e della causa irachena: la seconda edizione aggiornata, ampliata e arricchita di un libro che è stato definito, all'epoca della sua prima uscita, "la più completa enciclopedia sulla destra radicale". Un saggio storico rigorosamente documentato dove la storia incontra l'attualità, ma anche un leggibilissimo romanzo criminale scritto con il piglio del cronista di nera.

Messa in latino: nella fantasia, e nella realtà



di Maurizio Blondet

Mary Higgins Clark, nata a New York (nel 1927) da famiglia irlandese, è la fortunata autrice di 24 romanzi-thriller, tutti divenuti best-seller; uno dei suoi libri («Where are the children?»), è alla settantacinquesima edizione.Il suo ultimo romanzo, uscito quest’anno, «Where are you now?» (Dove sei adesso?), contiene un passo significativo: «... Da quando Papa Benedetto XVI aveva dichiarato che ogni parroco poteva celebrare la Messa in latino, padre Devon aveva annunciato che da ora in poi la Messa domenicale delle 11 sarebbe state celebrata in questa lingua tradizionale della Chiesa, che lui parlava correntemente. La reazione dei parrocchiani lo stupì. La chiesa si riempiva da scoppiare a quell’ora, non solo di anziani ma di adolescenti e giovani adulti che rispondevano con ardore Deo gratias anzichè “Sia ringraziato il Signore”, e recitavano il Pater Noster anzichè il Padre Nostro» (1).Questo avviene nel mondo della fantasia, o se preferite, della fiction. Nella realtà, ecco cosa si legge nell’editoriale postato sul sito della diocesi francese di Arras, a firma dell’abate Emile Hennart: «... Nel campo religioso, si potrà sottolineare l’apertura del dialogo con l’Islam intrapresa da Papa Benedetto XVI o l’avvicinamento alla Cina. Si potrà per contro spiacersi per i favori accordati ad una liturgia ereditata dal Medio Evo, che sembra ignorare la pratica dei primi secoli della Chiesa, quella dei Padri in special modo».Che dire? Come sempre, la realtà supera la fantasia. Di molte lunghezze. La diocesi di Arras crede che la Messa in latino venga dal Medio Evo, mentre se mai viene dalla Controriforma (parliamo del 1600, non del 1200); e conferma che la volontà dei «progressisti» nella liturgia è in realtà una sete (archeologica?) di arcaismo: fa riferimento a più o meno fantasiose «pratiche dei primi secoli», specificamente «dei Padri della Chiesa». Quasi che il banale «scambiatevi un segno di pace» (a cui seguono grandi strette di mano) fosse una pratica dei primi cristiani.Forse, a forza di arcaicismi, i progressisti vogliono arrivare ad una congetturale o fantomatica messa in ebraico; lo suggerisce l’enorme spazio dato alla Torah, a «Israele» e ai Salmi nella liturgia post-conciliare.Ma chi volesse appurare di prima mano come la pensassero i Padri della Chiesa, e cosa praticavano i cristiani «dei primi secoli», potrà adesso vedere su internet il Codex Sinaiticus. Lo ha messo in linea la biblioteca universitaria di Lipsia, con l’intento di unire ed offrire alla lettura degli specialisti e dei colti l’intero Codex, che è disperso in mezzo mondo: 43 pagine sono appunto a Lipsia, 67 alla British Library, altre sono a San Pietroburgo e a Santa Caterina del Sinai. Per ora, sono in linea oltre 100 pagine; entro il 2009, l’intera opera dovrebbe essere consultabile.Sui media che si sono dati la pena di dare la notizia, questa è chiamata «la più antica Bibbia del mondo». In realtà è una delle due più antiche, insieme al Codex Vaticanum, che è integralmente conservato in Vaticano. Si tratta di due codici della metà del quarto secolo. Forse due delle 50 copie della Bibbia che Eusebio di Cesarea mandò all’imperatore Costantino da poco passato alla fede in Cristo.Eusebio, vescovo palestinese, nacque nel 264 e morì verso il 340; Costantino abbracciò pubblicamente il cristianesimo nel 313 (Editto di Milano). Dovrebbe essere dunque una «arcaicità» soddisfacente per i progressisti ansiosi di recuperare le pratiche della prima Chiesa, supposta giudaizzante.Ebbene: anzitutto, si può constatare che il codex è scritto in greco (caratteri unciali) e non in ebraico; com’è ovvio, dato che già un paio di secoli prima di Cristo gli stessi ebrei di Alessandria - la più grande comunità, più numerosa di quella palestinese - leggevano la Bibbia in greco, non comprendendo più l’ebraico. Solo un paio di secoli «dopo» Cristo, in odio alla Chiesa, abbandonarono la loro Bibbia greca dei Settanta (era il testo che avevano in comune con i cristiani, ed identificava troppo bene il Messia) per ricostruirsi una Torah fatta incollando vari testi ebraico-aramaici (i testi masoretici).Fatto ancor più significativo: il Codex Sinaiticus contiene tutto il Nuovo Testamento, ma solo un estratto dell’Antico Testamento. Ognuno ne tragga le conclusioni che vuole: ma a quanto sembra, Eusebio di Cesarea, palestinese, pare essere stato tutt’altro che giudaizzante. Non sembra che i primi cristiani fossero avidi di trarre ispirazione dal Deuteronomio o dai Numeri e dal Levitico, ma solo dai passi che nell’Antico Testamento annunciavano il Cristo. Vale la pena di ricordare che la Chiesa pre-conciliare scoraggiava la lettura privata dell’Antico Testamento ai fedeli non preparati.In ogni caso, il testo del Sinai, come quello Vaticano, dimostrano che il canone delle Scritture era già perfettamente stabilito prima del 340 dopo Cristo. Nel Codex Sinaiticus, i libri dei Vangeli sono esattamente nell’ordine che conosciamo oggi. Naturalmente, queste osservazioni non intaccheranno la fede giudaica dei progressisti. Nè le loro liturgie fanta-archeologiche. In cui peraltro sono possibili inserzioni di tutt’altro genere: un lettore di un sito cattolico francese (2) segnala che nella sua chiesa, il giorno della festività dei Santi Pietro e Paolo, il giovane sacerdote ha celebrato ostentando, sui paramenti, un adesivo con il simbolo del Gay Pride (un’altra celebrazione che era in corso a Parigi di quel giorno).In Francia, il laicismo al potere ha vietato «l’esibizione ostentatoria dei segni di appartenenza religiosa», una norma contro il velo delle musulmane (ma anche della kippà); ora, è chiaro che invece in chiesa si può ostentare l’adesione ad una perversione, promossa ad «identità sessuale».Si potrebbe chiedere a quale testo masoretico il prete francese si sia ispirato per questa sua celebrazione liturgica della propria omosessualità; sarebbe gradita la citazione originale in ebraico (o aramaico, se del caso) che autorizza la finocchieria. Ci pare infatti che questa «pratica» fosse punita da Mosè con pene atroci. Ma possiamo sbagliare. La realtà supera sempre la fantasia, nel nuovo mondo clericale.
1) Padre Devon è uno dei personaggi del romanzo; è zio del protagonista, il 21 enne Charles che, dieci anni fa, ha lasciato il suo appartamento di Manhattan e gli studi alla Columbia University, ed è sparito nel nulla. Salvo che ogni anno, alla festa della mamma, chiama sua madre al telefono, la dice che sta bene, e riattacca. Nemmeno la morte di suo padre nella strage dell’11 settembre lo fa tornare a casa. Sua sorella Carolyn, 26 anni, si mette alla sua ricerca. Troverà le tracce di suo fratello ma anche quelle di un serial killer che uccide giovani donne... Insomma un thriller alla Mary Higgins Clark. Porterà a milioni di lettori la nostalgia per la Messa di sempre.2) «Le blog d’Yves Daoudal», http://yvesdaoudal.hautetfort.com/ luglio 2008.
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