di Giovanni Tarantino
«Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie / Quello che veramente ami non ti sarà strappato / Quello che veramente ami è la tua eredità». Con riferimento a questi indimenticabili versi di Ezra Pound tratti dai Canti pisani, arriva in libreria Quello che veramente ami, primo romanzo di Riccardo Arena (Dario Flaccovio Editore, pp. 251, euro 13,50).
L’autore, palermitano, classe 1962, giornalista professionista, si occupa di cronaca giudiziaria al Giornale di Sicilia ed è corrispondente de Il Foglio e di Panorama, per le quali testate ha trattato i più importanti processi tenuti nel capoluogo siciliano, da Andreotti a Dell’Utri sino a Cuffaro. Già vincitore, nel corso della sua carriera, del premio “Cronista dell’anno” e di due premi “Informazione e sanità”, settore di cui è un vero specialista e su cui ha anche scritto un libro-inchiesta nel ’94, Sanità alla sbarra, approda ora alla narrativa con questo suo primo sorprendente romanzo.
La storia, ambientata nella Milano del ’77, con riferimenti alla Sicilia del ’68 e del ’92, narra di una controversa quanto romantica relazione sentimentale tra Enrico, detto il Tunisi, «fascista fino al midollo», e Monica, vicina all’Autonomia Operaia, ma bellissima agli occhi dell’innamorato emigrato che le dedica spesso le parole della celebre Era bella di Renato dei Profeti: «Che importa la gente / che importa soffrire / che importa morire / Era bella era bella / quella donna era tutto per me». Una storia d’amore tra un “nero” e una “rossa”, come viene simboleggiato dalle due ciliegie dei medesimi colori raffigurate in copertina, che ricorda come nell’Italia degli anni Settanta «poteva capitare di diventare “fasci” o “compagni” per valutazioni tutt’altro che politiche – come si legge nella prefazione di Giovanni Bianconi – per essere nati o abitare in un quartiere piuttosto che in un altro, per appartenenza familiare, per orgoglio, per riuscire a conquistare una ragazza, per un’amicizia, per un’ingiustizia subita o per una storia sentita raccontare chissà da chi».
Ma è soprattutto una storia d’amore “vera” e intensa, quella vissuta nel romanzo tra Enrico e Monica: tra politica, rugby, botte, feriti, violenza, gli albori dello spontaneismo armato di destra e l’onda crescente del terrorismo rosso, la relazione tra Enrico e Monica appare come un autentico incontro tra elementi di una stessa generazione che non aveva motivo di essere contrapposta. Non è il primo caso in cui possiamo registrare un’inversione di tendenza nel panorama letterario italiano. Da qualche tempo, infatti, non assistiamo più alla celebrazione degli anni Settanta “a senso unico”: un graduale fermento, che bisogna far risalire alla pubblicazione di romanzi come Il paese delle meraviglie di Giuseppe Culicchia e Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, e che passa attraverso Camerata addio di Pierluigi Felli, I rossi e i neri di Miro Renzaglia, Anni di porfido di Ferdinando Menconi, Io non scordo di Gabriele Marconi, Baci e bastonate di Augusto Grandi e Mamma stanotte non torno di Bibi Bianca, per concludersi appunto con Quello che veramente ami, sta portando negli ultimi anni alla ribalta diverse riflessioni non conformiste su quel periodo. E non solo: si ha l’impressione che, a differenza dei tanti romanzi scritti a cavallo degli anni Novanta che non davano mai voce in capitolo ai giovani collocati a destra, se non minimizzandone gli aspetti positivi e dipingendoli nella solita stereotipata veste di beceri violenti picchiatori, questa nuova ondata di autori non allineati abbia come prerogativa quella di dare voce a tutti i giovani, tralasciando l’aspetto delle appartenenze politiche, visto come secondario.
È proprio il caso di Quello che veramente ami, vera e propria icona dell’incontro generazionale tra ragazzi che innanzi tutto erano giovani, prima ancora di essere “rossi” o “neri”. Così, nel libro, percepiamo come l’amore e i sentimenti, la passione per il rugby che unisce esponenti di destra e di sinistra che giocano nella stessa squadra, il Clan, con le divise verdi ispirate a quelle dell’Irlanda, la musica dei Profeti piuttosto che di Francesco Guccini, Rino Gaetano o Lucio Battisti, l’apprezzamento assolutamente condiviso per la poesia di Ezra Pound, restituiscano i giovani alla loro dimensione naturale, ad un giovanilismo che prescinde ogni appartenenza politica.
E il tutto contestualizzato nell’anno simbolo di un intero movimento generazionale quale è stato il ’77. Non deve stupire la dedica a Pound, il poeta americano che nel libro viene apprezzato anche da esponenti della sinistra. Del resto proprio nel ’77 all’autore dei Cantos furono dedicati dei versi dal grande artista Andrea Pazienza, legato anch’egli a quella stagione creativa, che nella sua celebre poesia Amo dichiarò: «Amo Ezra Pound, fascista». E il poeta fascista viene ritenuto anche da Arena una vera e propria icona: «Il poeta americano, che fu ritenuto matto perché fascista, ha affascinato un’intera generazione per la sua capacità di non arrendersi. Lui che combatteva a parole e fatti il capitalismo che imperava negli Stati Uniti, ha regalato al mondo una visione onirica del fascismo, con versi bellissimi. E ancora oggi la frase "Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o non valgono nulla le sue idee, o non vale niente lui", campeggia sulla tomba di Giustino Blandi, uno dei migliori uomini di sempre della destra siciliana. Proprio quella frase riecheggiava nelle giornate del ’77». Un anno davvero cruciale nella vita pubblica e generazionale del nostro paese, quello, che secondo Arena «rappresenta un passo molto importante nella storia d’Italia. In quell’anno vengono fuori, come mai era accaduto in precedenza, le contraddizioni interne al mondo della sinistra. Alla Sapienza si assiste alla contestazione di Lama, mentre a Bologna il sindaco del Pci Renato Zangheri autorizza l’intervento dei blindati che arriveranno agli scontri con gli extraparlamentari che porteranno alla morte di Francesco Lorusso. Ma da lì a poco i giovani cominceranno a capire che la violenza non portava ad alcun risultato».
Così, ad esempio, la stessa contestazione nei confronti di Lama verrà accolta con entusiasmo anche a destra, da parte di aderenti al Fuan che individuavano nella creatività pittoresca degli “indiani metropolitani” lo stesso entusiasmo, la stessa voglia di portare “l’immaginazione al potere” che era stata dei dannunziani a Fiume. Di lì a breve cominciava la stagione delle sintesi, dei ragionamenti al di là della destra e della sini stra, categorie ormai desuete, della riscoperta della società civile e i giovani si ritrovavano su posizioni condivise sui grandi dibattiti degli anni Ottanta, come la questione ambientale o gli orizzonti d’Europa unita che l’ormai logoro muro di Berlino lasciava intravedere.
È questa una prospettiva condivisa dallo stesso Arena: «Gli anni Settanta sono stati per certi versi durissimi. Abbiamo dovuto assistere a morti assurde come quella di Mantakas, di Zicchieri, di Ramelli, la strage di Acca Larentia. Ma non credo giusto parlare di quel periodo solo alla luce della scia di sangue che ha lasciato. Bisogna ricordare che grazie alle suggestioni ereditate dal ’77 si venne successivamente a creare il tunnel che permise di uscire dalla stagione del terrorismo e della violenza. Si impose il senso di responsabilità, si ritenne che giovani vite non potevano più essere sacrificate a guerre che non appartenevano più a quelle generazioni». Poteva succedere quindi che Enrico e Monica, protagonisti di Quello che veramente ami e immaginifici emblemi della loro generazione, cantassero insieme a squarciagola, in macchina, come si utilizzava proprio in quegli anni, Dio è morto di Francesco Guccini.
Episodi che chi ha vissuto da adolescente o da giovane gli anni Settanta ricorda bene ancora oggi. «Del resto – prosegue Arena – concordo con il parere di Gemma Capra, la vedova del commissario Calabresi, una delle più rappresentative vittime della violenza degli “anni di piombo”, quando dice che i cinquantenni di oggi hanno nostalgia di quegli anni perché furono gli anni della loro gioventù. Non è certo nostalgia per la violenza quella: caso mai è il rammarico di chi vede ormai perduto il tempo in cui si fu ragazzi».
Enrico, in un trascorrere molto coinvolgente degli eventi, conquista Monica, inizialmente sulla pregiudiziale nei confronti del coetaneo “fascista”, che riteneva conoscitore solo di Faccetta nera e Battaglioni del Duce... Tutt’altro. il Tunisi, invece, sfoggia invece conoscenze musicali degne del suo periodo, così come in camera il poster che ha appeso non è certo quello di un gerarca ma del campione di rugby Jean Pierre Rives, quello che, secondo una celebre frase avrebbe «osato mettere la testa dove gli altri non hanno messo nemmeno i piedi». Un “fascista” libertario e nonconformista, a suo modo postsessantottino, Enrico, che si scontra ripetutamente col padre, che fascista – e combattente – lo fu per davvero durante la seconda guerra mondiale, che non condivide le scelte del figlio e lo rimprovera di combattere una guerra che non è sua.
E che sul finire del libro si interroga sulla stessa definizione che gli appare non idonea, rispondendo a un interlocutore immaginario: «Forse fascista non lo sono mai stato». E allora, se chiediamo ad Arena, cosa era realmente Enrico, scopriamo che «era essenzialmente e istintivamente un ribelle. Come tutti i suoi coetanei del tempo si è creduto a tratti rivoluzionario, ha pensato che il cosiddetto “sistema” dovesse essere rovesciato, ma lo ha fatto in maniera quasi inconsapevole, non capendo nemmeno di quale sistema parlasse. Un ribellismo spontaneo quello di Enrico che lo porta al contrasto col padre, a sua volta fascista. C’è tuttavia nelle idee di Enrico una mutazione della grande componente sociale del fascismo movimento, che fu autenticamente rivoluzionaria e che, come tutte le rivoluzioni, ha lasciato anche delle eredità positive. Quella componente storica della destra che ha vissuto a lungo all’interno del Movimento sociale italiano, attenta ai problemi sociali, e che ha portato in molti a chiedersi in cosa effettivamente un uomo politico come Alemanno fosse realmente “di destra”».
Il libro di Arena ha quindi il grande merito di superare ogni pregiudizio e di proporre una nuova ottica con cui guardare ai fenomeni politici e culturali del nostro tempo che «necessitano un superamento delle vecchie dicotomie politiche che oggi, qualora ancora non lo fossero, devono essere superate». E si può pure sostenere che anche attraverso questo romanzo è stato fatto un altro importante passo verso la costruzione di un immaginario condiviso.
Ed è possibile, infine, rintracciare la speranza, come si legge nella postfazione di Lirio Abbate, «che oltre all’amore tra i protagonisti emerga anche l’amore per la politica attiva, per la voglia di esserci e di partecipare, di lavorare per il bene comune. È questo un libro d’amore per i giovani che non ci stanno a rassegnarsi e che vogliono combattere, con la riscoperta degli ideali, una politica che oggi, come ricorda Guccini, è solo far carriera». Parafrasando il Luciano Ligabue di Una vita da mediano, invece, Lirio Abbate, indica come Quello che veramente ami inviti soprattutto a stare «lì nel mezzo» e a mettersi in gioco per costruire una società che non viva di apatia, di disimpegno o di antipolitica: «Per ritrovarsi, per riprendersi e per decidere da sé il proprio futuro».
L’autore, palermitano, classe 1962, giornalista professionista, si occupa di cronaca giudiziaria al Giornale di Sicilia ed è corrispondente de Il Foglio e di Panorama, per le quali testate ha trattato i più importanti processi tenuti nel capoluogo siciliano, da Andreotti a Dell’Utri sino a Cuffaro. Già vincitore, nel corso della sua carriera, del premio “Cronista dell’anno” e di due premi “Informazione e sanità”, settore di cui è un vero specialista e su cui ha anche scritto un libro-inchiesta nel ’94, Sanità alla sbarra, approda ora alla narrativa con questo suo primo sorprendente romanzo.
La storia, ambientata nella Milano del ’77, con riferimenti alla Sicilia del ’68 e del ’92, narra di una controversa quanto romantica relazione sentimentale tra Enrico, detto il Tunisi, «fascista fino al midollo», e Monica, vicina all’Autonomia Operaia, ma bellissima agli occhi dell’innamorato emigrato che le dedica spesso le parole della celebre Era bella di Renato dei Profeti: «Che importa la gente / che importa soffrire / che importa morire / Era bella era bella / quella donna era tutto per me». Una storia d’amore tra un “nero” e una “rossa”, come viene simboleggiato dalle due ciliegie dei medesimi colori raffigurate in copertina, che ricorda come nell’Italia degli anni Settanta «poteva capitare di diventare “fasci” o “compagni” per valutazioni tutt’altro che politiche – come si legge nella prefazione di Giovanni Bianconi – per essere nati o abitare in un quartiere piuttosto che in un altro, per appartenenza familiare, per orgoglio, per riuscire a conquistare una ragazza, per un’amicizia, per un’ingiustizia subita o per una storia sentita raccontare chissà da chi».
Ma è soprattutto una storia d’amore “vera” e intensa, quella vissuta nel romanzo tra Enrico e Monica: tra politica, rugby, botte, feriti, violenza, gli albori dello spontaneismo armato di destra e l’onda crescente del terrorismo rosso, la relazione tra Enrico e Monica appare come un autentico incontro tra elementi di una stessa generazione che non aveva motivo di essere contrapposta. Non è il primo caso in cui possiamo registrare un’inversione di tendenza nel panorama letterario italiano. Da qualche tempo, infatti, non assistiamo più alla celebrazione degli anni Settanta “a senso unico”: un graduale fermento, che bisogna far risalire alla pubblicazione di romanzi come Il paese delle meraviglie di Giuseppe Culicchia e Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, e che passa attraverso Camerata addio di Pierluigi Felli, I rossi e i neri di Miro Renzaglia, Anni di porfido di Ferdinando Menconi, Io non scordo di Gabriele Marconi, Baci e bastonate di Augusto Grandi e Mamma stanotte non torno di Bibi Bianca, per concludersi appunto con Quello che veramente ami, sta portando negli ultimi anni alla ribalta diverse riflessioni non conformiste su quel periodo. E non solo: si ha l’impressione che, a differenza dei tanti romanzi scritti a cavallo degli anni Novanta che non davano mai voce in capitolo ai giovani collocati a destra, se non minimizzandone gli aspetti positivi e dipingendoli nella solita stereotipata veste di beceri violenti picchiatori, questa nuova ondata di autori non allineati abbia come prerogativa quella di dare voce a tutti i giovani, tralasciando l’aspetto delle appartenenze politiche, visto come secondario.
È proprio il caso di Quello che veramente ami, vera e propria icona dell’incontro generazionale tra ragazzi che innanzi tutto erano giovani, prima ancora di essere “rossi” o “neri”. Così, nel libro, percepiamo come l’amore e i sentimenti, la passione per il rugby che unisce esponenti di destra e di sinistra che giocano nella stessa squadra, il Clan, con le divise verdi ispirate a quelle dell’Irlanda, la musica dei Profeti piuttosto che di Francesco Guccini, Rino Gaetano o Lucio Battisti, l’apprezzamento assolutamente condiviso per la poesia di Ezra Pound, restituiscano i giovani alla loro dimensione naturale, ad un giovanilismo che prescinde ogni appartenenza politica.
E il tutto contestualizzato nell’anno simbolo di un intero movimento generazionale quale è stato il ’77. Non deve stupire la dedica a Pound, il poeta americano che nel libro viene apprezzato anche da esponenti della sinistra. Del resto proprio nel ’77 all’autore dei Cantos furono dedicati dei versi dal grande artista Andrea Pazienza, legato anch’egli a quella stagione creativa, che nella sua celebre poesia Amo dichiarò: «Amo Ezra Pound, fascista». E il poeta fascista viene ritenuto anche da Arena una vera e propria icona: «Il poeta americano, che fu ritenuto matto perché fascista, ha affascinato un’intera generazione per la sua capacità di non arrendersi. Lui che combatteva a parole e fatti il capitalismo che imperava negli Stati Uniti, ha regalato al mondo una visione onirica del fascismo, con versi bellissimi. E ancora oggi la frase "Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o non valgono nulla le sue idee, o non vale niente lui", campeggia sulla tomba di Giustino Blandi, uno dei migliori uomini di sempre della destra siciliana. Proprio quella frase riecheggiava nelle giornate del ’77». Un anno davvero cruciale nella vita pubblica e generazionale del nostro paese, quello, che secondo Arena «rappresenta un passo molto importante nella storia d’Italia. In quell’anno vengono fuori, come mai era accaduto in precedenza, le contraddizioni interne al mondo della sinistra. Alla Sapienza si assiste alla contestazione di Lama, mentre a Bologna il sindaco del Pci Renato Zangheri autorizza l’intervento dei blindati che arriveranno agli scontri con gli extraparlamentari che porteranno alla morte di Francesco Lorusso. Ma da lì a poco i giovani cominceranno a capire che la violenza non portava ad alcun risultato».
Così, ad esempio, la stessa contestazione nei confronti di Lama verrà accolta con entusiasmo anche a destra, da parte di aderenti al Fuan che individuavano nella creatività pittoresca degli “indiani metropolitani” lo stesso entusiasmo, la stessa voglia di portare “l’immaginazione al potere” che era stata dei dannunziani a Fiume. Di lì a breve cominciava la stagione delle sintesi, dei ragionamenti al di là della destra e della sini stra, categorie ormai desuete, della riscoperta della società civile e i giovani si ritrovavano su posizioni condivise sui grandi dibattiti degli anni Ottanta, come la questione ambientale o gli orizzonti d’Europa unita che l’ormai logoro muro di Berlino lasciava intravedere.
È questa una prospettiva condivisa dallo stesso Arena: «Gli anni Settanta sono stati per certi versi durissimi. Abbiamo dovuto assistere a morti assurde come quella di Mantakas, di Zicchieri, di Ramelli, la strage di Acca Larentia. Ma non credo giusto parlare di quel periodo solo alla luce della scia di sangue che ha lasciato. Bisogna ricordare che grazie alle suggestioni ereditate dal ’77 si venne successivamente a creare il tunnel che permise di uscire dalla stagione del terrorismo e della violenza. Si impose il senso di responsabilità, si ritenne che giovani vite non potevano più essere sacrificate a guerre che non appartenevano più a quelle generazioni». Poteva succedere quindi che Enrico e Monica, protagonisti di Quello che veramente ami e immaginifici emblemi della loro generazione, cantassero insieme a squarciagola, in macchina, come si utilizzava proprio in quegli anni, Dio è morto di Francesco Guccini.
Episodi che chi ha vissuto da adolescente o da giovane gli anni Settanta ricorda bene ancora oggi. «Del resto – prosegue Arena – concordo con il parere di Gemma Capra, la vedova del commissario Calabresi, una delle più rappresentative vittime della violenza degli “anni di piombo”, quando dice che i cinquantenni di oggi hanno nostalgia di quegli anni perché furono gli anni della loro gioventù. Non è certo nostalgia per la violenza quella: caso mai è il rammarico di chi vede ormai perduto il tempo in cui si fu ragazzi».
Enrico, in un trascorrere molto coinvolgente degli eventi, conquista Monica, inizialmente sulla pregiudiziale nei confronti del coetaneo “fascista”, che riteneva conoscitore solo di Faccetta nera e Battaglioni del Duce... Tutt’altro. il Tunisi, invece, sfoggia invece conoscenze musicali degne del suo periodo, così come in camera il poster che ha appeso non è certo quello di un gerarca ma del campione di rugby Jean Pierre Rives, quello che, secondo una celebre frase avrebbe «osato mettere la testa dove gli altri non hanno messo nemmeno i piedi». Un “fascista” libertario e nonconformista, a suo modo postsessantottino, Enrico, che si scontra ripetutamente col padre, che fascista – e combattente – lo fu per davvero durante la seconda guerra mondiale, che non condivide le scelte del figlio e lo rimprovera di combattere una guerra che non è sua.
E che sul finire del libro si interroga sulla stessa definizione che gli appare non idonea, rispondendo a un interlocutore immaginario: «Forse fascista non lo sono mai stato». E allora, se chiediamo ad Arena, cosa era realmente Enrico, scopriamo che «era essenzialmente e istintivamente un ribelle. Come tutti i suoi coetanei del tempo si è creduto a tratti rivoluzionario, ha pensato che il cosiddetto “sistema” dovesse essere rovesciato, ma lo ha fatto in maniera quasi inconsapevole, non capendo nemmeno di quale sistema parlasse. Un ribellismo spontaneo quello di Enrico che lo porta al contrasto col padre, a sua volta fascista. C’è tuttavia nelle idee di Enrico una mutazione della grande componente sociale del fascismo movimento, che fu autenticamente rivoluzionaria e che, come tutte le rivoluzioni, ha lasciato anche delle eredità positive. Quella componente storica della destra che ha vissuto a lungo all’interno del Movimento sociale italiano, attenta ai problemi sociali, e che ha portato in molti a chiedersi in cosa effettivamente un uomo politico come Alemanno fosse realmente “di destra”».
Il libro di Arena ha quindi il grande merito di superare ogni pregiudizio e di proporre una nuova ottica con cui guardare ai fenomeni politici e culturali del nostro tempo che «necessitano un superamento delle vecchie dicotomie politiche che oggi, qualora ancora non lo fossero, devono essere superate». E si può pure sostenere che anche attraverso questo romanzo è stato fatto un altro importante passo verso la costruzione di un immaginario condiviso.
Ed è possibile, infine, rintracciare la speranza, come si legge nella postfazione di Lirio Abbate, «che oltre all’amore tra i protagonisti emerga anche l’amore per la politica attiva, per la voglia di esserci e di partecipare, di lavorare per il bene comune. È questo un libro d’amore per i giovani che non ci stanno a rassegnarsi e che vogliono combattere, con la riscoperta degli ideali, una politica che oggi, come ricorda Guccini, è solo far carriera». Parafrasando il Luciano Ligabue di Una vita da mediano, invece, Lirio Abbate, indica come Quello che veramente ami inviti soprattutto a stare «lì nel mezzo» e a mettersi in gioco per costruire una società che non viva di apatia, di disimpegno o di antipolitica: «Per ritrovarsi, per riprendersi e per decidere da sé il proprio futuro».
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