Se avanzo seguitemi!
Se indietreggio uccidetemi!
Se muoio vendicatemi!
Di Michele Fabbri
Questo era il motto del conte Henri de La Rochejaquelein, morto in combattimento a 21 anni, uno dei capi della grande rivolta che ha infiammato la Vandea nel 1793. Con questo spirito indomito e ribelle i monarchici affrontarono l’intolleranza repubblicana che appestò la Francia nel 1789 e che si estese come un’epidemia maligna a tutta l’Europa, dando origine a quel Regno dell’Anticristo che è la “modernità” nell’accezione ideologica del termine.
La Rivoluzione Francese aveva trovato terreno fertile a Parigi, dove l’avida borghesia cittadina e un’aristocrazia corrotta e smidollata si erano abbeverate col veleno dell’illuminismo nelle logge massoniche che pullulavano nella metropoli francese. Nelle campagne, invece, la nobiltà era vicina agli abitanti del territorio e amministrava con cura un’economia ancora prevalentemente agricola: il sistema feudale nelle campagne era sostanzialmente integro. Per questo gli abitanti delle campagne, anche quelli che appartenevano ai ceti sociali più umili, erano molto diffidenti verso le novità che venivano dalla capitale. La regione della Vandea, in particolare, manifestò segni di forte malcontento che sfociarono in rivolte armate quando il governo repubblicano ordinò la deportazione del clero che rifiutava di prestare giuramento alla Repubblica. Molti sacerdoti, infatti, preferirono andare incontro a un glorioso martirio piuttosto che accettare le logiche demoniache del potere repubblicano. Poi, quando la Repubblica, ormai sotto il ferreo controllo di Robespierre, comincia ad arruolare i contadini per le sue guerre “patriottiche”, la rivolta diventa endemica: ovunque vengono distrutti gli “alberi della libertà”, simbolo odioso del terrore rivoluzionario.
Messi di fronte all’eventualità di rischiare la vita, gli abitanti della Vandea non hanno dubbi: meglio morire per Dio e per il Re che per la Repubblica. Così comincia la guerra civile fra i “Bianchi”, legittimisti monarchici, e i “Blu”, repubblicani. I ribelli legittimisti ottenero dei brillanti successi fra il marzo e il settembre del 1793 contro le armate repubblicane, arrivando a radunare sotto il vessillo della monarchia un nucleo iniziale di 20.000 uomini, guidati da comandanti abili ed esperti fra i quali si mette in luce François Athanase Charette de la Contrie, oltre al già citato Henri de La Rochejaquelein. Tuttavia i contadini vandeani sono combattenti non professionisti, e dopo le battaglie tornano alle rispettive abitazioni, per cui i repubblicani hanno il tempo di organizzare le opportune contromosse ed inviano nella regione 70.000 uomini.
Il conflitto si estende e diviene sempre più crudele assumendo il carattere di una guerra totale: la Repubblica sta perdendo la faccia di fronte a masse di contadini armate di forcale e i governanti repubblicani sono decisi a portare avanti la distruzione completa della regione, mettendo in atto uno sterminio intenzionale della popolazione vandeana. I repubblicani mandano altre truppe in Vandea, e alla fine del 1793 la rivolta è quasi totalmente soffocata nel sangue. Le armate repubblicane, ormai tristemente note come “colonne infernali”, si abbandonano ai peggiori eccessi contro la popolazione civile: in alcuni villaggi tutti gli abitanti vengono sistematicamente sterminati, e i loro cadaveri vengono bruciati in appositi forni crematori. La fantasia sadica dei repubblicani arriva ad inventare una singolare modalità di esecuzione dei prigionieri: i condannati, legati fra di loro, sono stipati su battelli che vengono fatti affondare nella Loira! Si calcola che le vittime arrivino al numero di 300.000, circa un terzo della popolazione della zona (se si considera la densità di popolazione dell’epoca, si tratta di una cifra impressionante). Lungi dall’abbandonare il fronte, la Controrivoluzione, dopo lo scacco subito, si riorganizza, anche grazie all’aiuto dell’Inghilterra che invia una flotta a sostegno degli insorgenti. La guerra si protrae fino al 1796, quando i repubblicani, dopo aver piegato le truppe ribelli, mettono a segno un importante successo: Charette viene catturato e fucilato. La Resistenza, privata del suo comandante più capace, non riesce più a organizzare un’azione militare vera e propria, anche se non mancheranno tentativi di riattivare l’insorgenza in età napoleonica.
Emblema della rivolta vandeana è il Sacro Cuore di Gesù, molto diffuso nella regione in quanto simbolo preferito del Beato Luigi Maria Grignon de Montfort, personaggio molto popolare in Vandea, che aveva diffuso una particolare devozione per questa immagine. Il Sacro Cuore, dopo le grandiose gesta della Resistenza controrivoluzionaria, divenne celebre anche come “Croce della Vandea”. Alla storia e alla diffusione di questo simbolo ha dedicato un breve opuscolo Louis Charbonneau-Lassay, insigne studioso di simbologia cristiana che ha scritto opere monumentali sull’iconografia del Cristo. Simboli della Vandea raccoglie una serie di immagini del Sacro Cuore che l’autore ha visto personalmente e che ha riportato nel libro sotto forma di disegno e, ove possibile, racconta le storie particolari legate alle singole immagini, generalmente dipinte su stoffa per essere appuntate al vestito, ma a volte anche incise sulle armi, oppure portate sotto forma di orecchino o di anello.
La democrazia moderna, figlia della ghigliottina, è sfociata nel totalitarismo democratico che soffoca le coscienze del mondo occidentale sedicente “libero”. Lo stesso Charette ha definito l’inconsistenza dell’idea di “patria” uscita dalla Rivoluzione Francese, rivolgendosi ai suoi uomini con queste parole: «la nostra patria per noi sono i villaggi, i nostri altari, le nostre tombe. Tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra patria è la nostra Fede, il nostro Re. Ma la loro patria che cos’è per loro? Voi lo capite? Loro l’hanno in testa, noi la sentiamo sotto i nostri piedi». Nella guerra di Vandea si delineano due modelli antropologici inconciliabili: l’uomo della Tradizione da una parte, l’uomo moderno creato dalla Rivoluzione dall’altra. Victor Hugo ha evocato con grande efficacia il tipo umano dell’abitante delle campagne in epoca prerivoluzionaria: «Si pensi a questo selvatico, serio e singolare, a quest’uomo dagli occhi chiari e dai capelli lunghi, che si nutre di latte e di castagne, di guardia al suo tetto di foglie, alla sua aia, al suo fossato, che distingue ogni villaggio da quello vicino dal suono della campana, che si serve dell’acqua solo per bere, che porta un abito di cuoio con arabeschi di seta… che venera il proprio aratro ed i propri avi, che crede alla Santa Vergine e alla Dama Bianca, che è devoto all’altare e all’alta pietra misteriosa in mezzo alla landa, lavoratore nella pianura, pescatore sulla costa, fedele ai Re, ai suoi signori, ai suoi sacerdoti; pensoso, immobile spesso, per ore intere sulla grande spiaggia deserta, ascoltatore del mare… Le donne vivevano nelle capanne e gli uomini nelle cripte; esse portavano da mangiare agli uomini… Improvvisamente andavano a farsi uccidere, lasciando la tana per il sepolcro… I Bianchi inseguivano sempre; i Blu mai, perché avevano il paese contro di loro… Molti non avevano che picche… Erano combattenti straordinari, spaventevoli, intrepidi. Il decreto di arruolamento di trecentomila uomini aveva fatto suonare le campane di seicento villaggi. L’incendio scoppiò sotto tutti i ponti… Quando i contadini attaccavano i repubblicani, se incontravano sul campo di battaglia una croce o una cappella, tutti cadevano in ginocchio e dicevano la loro preghiera sotto la mitraglia; finito il rosario quelli che restavano si rialzavano e piombavano sul nemico… Quando attraversavano un bosco repubblicano, spezzavano l’albero della libertà, lo bruciavano e ballavano in tondo attorno al fuoco. Facevano quindici leghe al giorno, senza piegare un’erba al proprio passaggio. Venuta la sera, caricavano i fucili, sussurravano le loro preghiere, levavano gli zoccoli e in lunga fila attraversavano i boschi a piedi nudi, sul muschio e sulle pagliuzze, senza un rumore, senza una parola, senza un soffio».
Naturalmente il genocidio della Vandea è una delle più imbarazzanti questioni storiografiche per la paludata e sclerotizzata cultura ufficiale. In Francia il Prof. Reynald Secher ha dedicato all’argomento studi approfonditi, il cui taglio revisionista ha inquietato la cultura “democratica”, che ha tentato di fermare Secher alternando le minacce ai tentativi di corruzione. Tuttavia Secher ha tirato dritto per la sua strada dando vita anche a una casa editrice le cui pubblicazioni hanno conosciuto notevole interesse da parte del pubblico. Le gesta eroiche della Resistenza vandeana non cadranno nell’oblio, e saranno sempre un fulgido esempio di libertà che deve stimolarci a combattere la violenza rivoluzionaria, che oggi ha assunto il volto mostruoso della globalizzazione.
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Bibliografia
Louis Charbonneau-Lassay, Simboli della Vandea. Emblemi ed insegne dell’armata controrivoluzionaria, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 1993, pp.94, euro 8,00, www.ilcerchio.itGian Pio Mattogno, La Massoneria e la Rivoluzione Francese, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 1990, pp.112, euro 7,80, www.insegnadelveltro.itReynald Secher, Il genocidio vandeano, effedieffe edizioni, Milano, 1989, pp. 384, euro 18,00, www.effedieffe.com, www.reynald-secher-editions.comJean-Clément Martin, Blancs et Bleus dans la Vendée déchirée, Gallimard, Paris, 2001, pp.192, euro 12.83, www.decouvertes-gallimard.fr
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